Santi

«Rallegratevi ed esultate» (Mt 5,12), dice Gesù a coloro che sono perseguitati o umiliati per causa sua. Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente. (dall’esortazione apostolica “Gaudete et Exultate” di Papa Francesco)

In questa pagina troverai le storie di alcuni giovani che non hanno avuto paura di puntare in alto e che vogliono dire anche a te, oggi, che la santità è davvero possibile.


EMER MEZZANOTTE: IL RIFLESSO DI DIO

[…] Non si fa discernimento per scoprire cos’altro possiamo ricavare da questa vita, ma per riconoscere come possiamo compiere meglio la missione che ci è stata affidata nel Battesimo, e ciò implica essere disposti a rinunce fino a dare tutto. Infatti, la felicità è paradossale e ci regala le migliori esperienze quando accettiamo quella logica misteriosa che non è di questo mondo. Come diceva san Bonaventura riferendosi alla croce: «Questa è la nostra logica». Se uno assume questa dinamica, allora non lascia anestetizzare la propria coscienza e si apre generosamente al discernimento.

(Papa Francesco, GE 174)

 
Emer nasce a Carpi il 17 aprile 1974. Al momento della nascita gli viene affidato il nome del nonno: tutti si interrogano su tale significato. Il nome deriva dal greco e vuol dire ‘giorno’, “e ripensando alla simbologia del giorno come luce, ci appare oggi quasi come una premonizione”.

L’infanzia di Emer è simile a quella degli altri bambini: dolce, affettuoso e docile ai genitori.

Quando Emer ha sei anni, la mamma si sottopone a un intervento chirurgico delicato, lui soffre in quei giorni, ma con il rincaso della madre torna anche la gioia e lui inizia ad essere premuroso e servizievole in tutto.

Durante le elementari il suo carattere si vivacizza: rimane sempre rispettoso verso i genitori, ma iniziano a scorgere tratti più esuberanti del suo carattere.

A 9 anni entra a far parte del gruppo scout locale dove ci rimane fino a 17 anni. Questa diventa l’occasione per conoscere nuovi amici, in particolare Filippo, e per crescere nell’esperienza umana.

L’anno successivo il padre, medico chirurgo, decide di lasciare l’ospedale e di partire volontario per il Pakistan per una missione di 4 mesi con la Croce Rossa. Questa notizia scuote tutti, soprattutto coloro che rimangono a casa. Dopo un solo mese scoppia una bomba nell’accampamento dove si trova il padre che non subisce danni, ma decide di tornare a casa. Riunita tutta la famiglia, si avvicinano al movimento Neocatecumenale.

Da un tema svolto in classe, di cui non sono mai stati resi pubblici i contenuti, la maestra, stupita, intuisce una propensione religiosa di Emer e dice alla madre: “questo ragazzo diventerà sacerdote”.

Durante le scuole medie, Emer ottiene ancora ottimi risultati e si nota un atteggiamento sempre più maturo, la sua esuberanza lascia spazio alla serietà, è molto composto. La dinamica si ripete anche al liceo, dove non mancano le soddisfazioni.

In questo periodo adolescenziale si nota il continuo avvicinamento di Emer verso Dio. La sera si reca in duomo con il breviario in mano, si fa più riservato, ma non nasconde la sua dolcezza e il suo affetto. Conosce la comunità monastica dei “Figli di Dio”, dove nel 1991 viene portato a visitare la casa madre a Settignano dove poi entra nell’aspirantato della comunità iniziando successivamente un cammino di formazione spirituale più specifica a Modena. Al suo rientro la madre lo descrive così: “Emer è trasformato dopo Settignano: al suo ritorno si è dimostrato immediatamente più disponibile e servizievole: va a prendere l’acqua in garage senza che glielo debba chiedere due volte, custodisce il cane… È mite, servizievole, molto sereno”.

Man mano che Emer diventa grande, cresce anche il suo carattere e la sua fede: è esigente. Sostenuto dall’amico Filippo, si confidano le difficoltà della vita quotidiana, in quanto provano entrambi disagio con i ragazzi della loro età trovandoli superficiali e insensibili a Dio.

Emer è ormai cambiato, si allontana sempre più dai suoi amici: sceglie di vivere “cose buone e serie”. Molti dei suoi atteggiamenti mostrano “purezza”, la sua preghiera si intensifica e decide di andare a Messa tutti i giorni e, quando riesce, recita tutte le sere con Filippo i Vespri.

Inizia a dialogare con Don Serafino, il quale presto gli parla del tema della chiamata di Dio. Non viene mai esplicitata da Emer la chiamata al dono totale, ma alcuni dei suoi atteggiamenti e dichiarazioni mostrano una tale inclinazione.

Nell’agosto 1991 subisce un incidente stradale: viene travolto da un motociclista ad alta velocità mentre è su un vecchio motorino del nonno. Il suo unico pensiero in quella situazione è la preoccupazione del dispiacere che avrebbe procurato ai suoi genitori. Dopo una lunga convalescenza si riprende completamente.

Guarito dalle ferite dell’incidente, Emer accusa un dolore alla testa, nella zona frontale. Inizia delle cure per una presunta sinusite, però, non ottenendo nessun effetto si sottopone poi ad una visita più accurata.

In quell’attesa continua a frequentare la comunità. Durante una catechesi Emer è costretto a tenere lo sguardo verso il basso per il forte dolore alla testa e la continua lacrimazione di un occhio, il padre gli chiede se gli è piaciuto, lui sa già le cose udite, aggiunge poi “Dio c’è”.

A metà febbraio del 1992 esegue TAC e RMN, alcuni colleghi del padre lo mettono in contatto con uno dei migliori chirurghi maxillo-facciale di Parma dove viene ricoverato per iniziare gli accertamenti. Consegnano al padre la diagnosi di neoplasia maligna, una forma rara ed estremamente aggressiva.

Prima di iniziare i cicli di chemioterapie, Emer chiede di ricevere l’unzione con l’olio degli infermi. La cosa che più stupisce è il fatto che non vuole sapere nulla della sua malattia, si affida completamente ai suoi genitori e alle loro scelte.

Una sera il dolore alla testa è così forte da invalidarlo in tutto, pure nelle relazioni, così il padre, d’impulso, gli mette la mano sulla testa. Con quel gesto all’inizio gli provoca un grande dolore ma, dopo dieci minuti, il figlio è tramortito, viene accompagnato sul divano e poi sul letto dove dorme per due giorni e mezzo. Si risveglia senza dolore e ricomincia a mangiare.

Verso la fine di marzo le chemioterapie debilitano molto Emer, ma lui decide di continuare ad andare a scuola e affrontare interrogazioni e compiti per non compromettere l’anno. Un giorno a scuola si accorge di essere cieco da un occhio e dopo una visita emerge che è un effetto collaterale dei farmaci: ricomincia subito a studiare.

Il tumore avanza, raggiunge il cervello e i nervi ottici. Emer è cieco da un occhio e l’altro è spinto fuori dall’orbita. Ciò non gli impedisce di fare un compito di greco raggiungendo un ottimo risultato.

Riceve per la seconda volta l’unzione degli infermi e il Martedì Santo viene ricoverato per eseguire l’intervento. Quel giorno dice al padre di non vederci e gli confida di non farcela più.

Il Giovedì Santo, nella notte, pronuncia con pacata dolcezza: “Gesù, Gesù”, poi si rannicchia nel letto come i bambini nel ventre materno. Quel giorno è sottoposto all’intervento che va meglio di quanto pensano: i medici rimuovono tutta la massa, rimangono solo dei piccoli residui da irradiare molto presto.

Il giorno seguente Emer diventa maggiorenne, ma è così debilitato dall’intervento e dall’anestesia che passa la giornata dormendo. Il Sabato Santo va in coma per un’eccessiva perdita di liquido cerebrospinale dal drenaggio ma, il giorno dopo, Pasqua, si sveglia, parla bene e chiede di alzarsi.

Il 24 aprile si consacra a Dio all’ospedale di Parma. Lo stesso giorno a Brescia gli viene data una risposta negativa sulla sua possibilità di recupero, i medici rifiutano di fargli la radioterapia perché il caso è irrecuperabile. Dopo tutti quegli avvenimenti viene don Serafino nella sua stanza d’ospedale per recitare la Santa Messa, e prima di ricevere la Comunione Emer esprime a voce alta la sua donazione: “Oggi io, Emer, alla presenza di Dio Onnipotente, della Beata Vergine Maria e di tutti i Santi, alla presenza di voi, padre, e di voi fratelli intendo donarmi e consacrarmi totalmente e per sempre a servizio e lode del Verbo di Dio incarnato per nostro amore, nella Comunità dei figli di Dio”. “A servizio e lode del Verbo di Dio…”.

Dopo quel momento la vita di Emer cambia: “è come se entrasse in uno stato di abbandono, di fiducia, di pace, sembra che aspetti la morte o, meglio, l’adempimento di ciò che ha promesso”.

Nei giorni successivi i genitori decidono di portare Emer a casa a morire dove in realtà rimane pochi giorni per tornare successivamente in ospedale. È sempre lucido. Le sue condizioni cliniche e fisiche peggiorano: il tumore esplode con recidive al cervello, nell’orbita sinistra e nella guancia sinistra. Sta a letto sdraiato, mangia solo gelato. Sta in silenzio, ma la sua vita interiore non è di certo ferma. “Emer colpisce per la straordinaria serenità con cui soffre”.

Verso il 22 maggio inizia “l’epilogo dell’agonia di Emer”: inizia a sanguinare, viene continuamente ripulito, fasciato, tamponato ma nulla blocca l’emorragia.

Emer muore il 31 maggio, solennità dell’Ascensione di Cristo. Prima di salire al Cielo riceve per la terza volta il sacramento dell’unzione degli infermi. “Ho sete” sono le sue ultime parole, come Gesù. Alle 14.15, durante il suo abbandono, i monaci della Casa S. Sergio cantano l’antifona dei salmi dell’ora nona: “Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”.

(fonte: https://rosarioonline.altervista.org/libri/GiovaniSanti/index.php?santo=EmerMezzanotte)

CHIARA MARIA BRUNO: IL SORRISO VERSO DIO

In tale silenzio è possibile discernere, alla luce dello Spirito, le vie di santità che il Signore ci propone. Diversamente, tutte le nostre decisioni potranno essere soltanto “decorazioni” che, invece di esaltare il Vangelo nella nostra vita, lo ricopriranno e lo soffocheranno. Per ogni discepolo è indispensabile stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui, imparare sempre. Se non ascoltiamo, tutte le nostre parole saranno unicamente rumori che non servono a niente.

(Papa Francesco, GE 150)

 
Nel 1991 nasce Chiara Maria Bruno, una bambina solare, con tanti amici tra scuola, pallavolo e parrocchia.

All’età di 19 anni, nel 2010, nota sulla cute del suo corpo alcune macchie. Da lì si attiva per eseguire visite mediche alle quali non viene data diagnosi se non stress e forme allergiche.

Dopo cinque anni arriva la diagnosi: linfoma di non-Hodgkin di tipo T cutaneo. La cosa che più stupisce è il fatto che questa malattia solitamente colpisce gli uomini adulti. Tale malattia, durante la sua evoluzione, converte le macchie in dolorose lesioni cutanee.

Chiara, nonostante le difficoltà, non si arrende e decide di affrontare la malattia con coraggio e determinazione, arrivando a svolgere cicli di chemioterapia.

Durante il periodo delle cure si iscrive alla Facoltà di Chimica e Tecnologia Farmacologica e continua a frequentare la sua comunità parrocchiale non sottraendosi mai alle richieste di aiuto di persone bisognose.

Chiara non si chiede mai il motivo della sua malattia e sofferenza e sceglie di entrare sempre nella volontà del Signore senza riserve: “Perciò prego Dio che mi doni la costanza nella preghiera quotidiana, che mi doni la fede ogni giorno, e che mi doni la forza di combattere la malattia sempre rispettando la Sua volontà”.

Inizialmente sembra che le cure stiano funzionando e si accende anche la speranza della possibilità di un trapianto di midollo osseo dalla sorella compatibile, attuabile solo con la completa remissione della malattia.

I desideri di Chiara sono molti, primo fra tutti formare una famiglia con il suo fidanzato Stefano. La possibilità però di fare figli diventa complessa in vista del trapianto, esso infatti l’avrebbe resa sterile. Decidono così di conservare la sua fonte di vita.

Il 5 marzo 2016, in seguito ad una crisi epilettica, viene ricoverata in oncoematologia a Tor Vergata e le viene comunicato che il tumore è arrivato al cervello.

Quel reparto diventa il luogo della sua Passione che la conduce a Gesù e la sala d’aspetto – viene riportato in varie testimonianze – “divenne il centro del mondo dove la Shekhinah di Dio scese su tutti coloro che erano attirati irrimediabilmente lì”. In tutti i luoghi dell’ospedale è incessante la preghiera rivolta verso Dio.

Chiara in quei giorni è Luce per chi la incontra e il suo fidanzato, guidato dalla Grazia, le porta conforto, sorriso e forza.

Chiara esprime il desiderio di ricevere ogni giorno l’Eucarestia e nonostante le difficoltà nella deglutizione riesce sempre a realizzarlo.

Nell’attesa dell’arrivo della Pasqua 2016, il presbitero della sua parrocchia le chiede di scrivere delle riflessioni sulle letture della Veglia. Desidera tanto partecipare, ma date le sue condizioni cliniche non ci riesce.

Chiara Maria muore il 23 aprile 2016, poco prima scrive: “Quando ti ammali di una malattia seria, è inevitabile che il pensiero vada anche alla morte. Una delle mie più grandi paure, non è tanto quella di morire, ma è quella di morire lontana da Cristo”.

(fonte: http://secretariat.synod.va/content/synod2018/it/giovani-testimoni/chiara-maria-bruno-una-ragazza-solare.html)

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Guarda la testimonianza del padre e del fidanzato di Chiara Maria a Bel tempo si spera.

PIERANGELO CAPUZZIMATI: L’AMICO DI GESÙ

Infine, malgrado sembri ovvio, ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio. È uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore. Non credo nella santità senza preghiera, anche se non si tratta necessariamente di lunghi momenti o di sentimenti intensi.

(Papa Francesco, GE 147)

 
Pierangelo Capuzzimati nasce a Taranto il 28 giugno 1990. Primo di due figli, appare un bambino come tanti, anche se si distingue già da piccolo dai suoi coetanei per la profondità dello “sguardo e la serietà dei ragionamenti”. Fratello maggiore di Sara diventa un grande punto di riferimento per lei.

Sin dalla tenera età coltiva un grande amore per la lettura e la scrittura. I genitori raccontano che alle scuole medie Pierangelo scrive un tema intitolato “i sogni nel cassetto”, nel quale parla di vari progetti che ha per il futuro. Si avvicina così anche al mondo della recitazione.

Nel 2004, un anno dopo aver ricevuto la Santa Cresima, gli viene diagnosticata la leucemia. Il suo quarto anno ginnasio lo passa alternando ricoveri ospedalieri e lunghe degenze a casa. Grazie all’aiuto di un insegnante di latino e greco impara queste materie nuove ottenendo ottimi risultati e lasciando senza parole tutti i docenti durante i periodi in cui riesce a frequentare le lezioni.

Tutti notano il suo talento, cresciuto grazie alle letture sempre più impegnative che lo accompagnano durante le lunghissime giornate di convalescenza. Affascinato in particolare dalla filosofia, si immerge in varie letture, in particolare negli scritti di Sant’Agostino e nella storia della Chiesa.

Nell’estate 2005 si sottopone al trapianto del midollo osseo che sembra riuscire bene, ma non riesce a frequentare l’anno successivo a scuola visti i lunghi periodi di recupero. Nella primavera del 2006 sostiene gli esami per essere ammesso al primo anno liceo classico che supera con ottimi risultati raggiungendo la media del nove.

Nell’agosto 2007 si sottopone al secondo trapianto di midollo seguendo gli stessi protocolli di quello precedente: rimanendo a casa da scuola e studiando in autonomia, sorprendendo tutti ancora una volta con gli esiti raggiunti.

Durante gli anni della malattia, ogni volta che i medici gli danno il permesso, organizza dei viaggi con la famiglia facendo da guida e creando lui stesso gli itinerari. Coltiva così la sua passione per la fotografia.

In una testimonianza, sua cugina Clarissa racconta come, stando con Pierangelo, abbia sottostimato la gravità della malattia: il cugino infatti non mostra mai la propria sofferenza e il proprio dolore e spesso le dà una mano nello studio del greco e del latino senza esitare.

Grazie alla malattia, il soffio dello Spirito fa nascere in Pierangelo una grande fede. Da subito, infatti, si abbandona al suo “amico Gesù”, avvicinando sempre più alla fede tutti coloro che gli stanno attorno, genitori compresi. Viene infatti poi definito “padre” dai propri genitori. Coglie la malattia come dono.

Riceve l’Unzione degli Infermi da solo, ritenendo i genitori non pronti a quel momento e lasciandoli in una “bolla spirituale”, consapevole che la loro fede sarebbe maturata successivamente. Il 30 aprile 2008, poco prima del suo diciottesimo compleanno, nasce al Cielo.

La sua beatificazione è definita dal padre come il “compimento di quanto era accaduto negli ultimi giorni della vita terrena di nostro figlio”. Racconta infatti in una testimonianza che il 25 aprile di quell’anno, mentre guardano le immagini dell’esposizione del corpo di Padre Pio alla televisione, trova la forza di parlare a Pierangelo e di dirgli che cosa sta per accadere, andando contro ciò che gli consigliano i medici che non lo ritengono pronto. Pierangelo ancora una volta stupisce il padre con la sua reazione, gli parla di quanto sia importante per i cristiani il culto della preservazione del corpo dopo la morte; per questo, assieme alla moglie, decide di non cremarlo. Per il padre, in quel momento, inizia “una nuova vita”: si pone moltissime domande, ma decide di fidarsi del figlio quando dice che “i progetti del Signore sono insondabili per la mente umana, difficili da comprendere per una mente così piccola e limitata ma vanno interpretati con gli occhi della fede”.

(fonti: https://www.pierangelocapuzzimati.it/ e https://www.youtube.com/watch?v=-LUnGIqarEw)

CATERINA MORELLI: IL POTERE DELLA GRAZIA

Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda che il dono della grazia supera la capacità dell’intelligenza e le forze della volontà dell’uomo e che nei confronti di Dio in senso strettamente giuridico non c’è merito da parte dell’uomo. Tra Lui e noi la disuguaglianza è smisurata.

(Papa Francesco, GE 54)

 
Caterina Morelli nasce il 16 giugno 1981 a Firenze e fin dalla giovane età fa parte del movimento di Comunione e Liberazione.

Durante il periodo degli studi in medicina, incontra Jonata, venuto a riparare un guasto a casa sua. Appena lui la vede se ne innamora subito, però Caterina, pochi giorni dopo, parte per un progetto in Africa di quattro mesi, ma appena torna gli chiede di uscire per pagare il lavoro svolto. Da lì iniziano ad uscire insieme, ma la storia si fa travagliata sin dall’inizio visto che, dopo soli due mesi che si frequentano, lei prende la meningite e viene ricoverata per un mese.

In quella circostanza lei gli chiede di accompagnarla a Lourdes. Lui rimane spiazzato perché si definisce “credente virtualmente”, afferma infatti che va a messa solo a Natale e Pasqua. Il viaggio è per chiedere una grazia per una ragazza che vive con lei, così nel 2009 lui parte con Caterina e le sue coinquiline e vanno a Lourdes.

Jonata si mette in gioco e dopo aver recitato il Santo Rosario con Caterina lei gli suggerisce di chiedere qualcosa alla Madonna. Lui chiede la guarigione della ragazza e un segno sulla sua relazione con Caterina.

Appena tornati dal viaggio lei scopre di essere incinta. Questa notizia sconvolge la vita di Caterina, subisce infatti molte critiche dalle persone attorno a lei, ma Jonata decide di mettersi in gioco e di terminare la loro casa in attesa di dare alla luce Gaia.

Il giorno del compleanno di Caterina, nel 2012, i due si sposano e pochi giorni dopo il matrimonio lei scopre di essere incinta del secondo figlio. Dopo questa gioiosa notizia, lo stesso giorno scopre di avere un tumore al seno in una forma molto estesa ed aggressiva.

Le viene proposta subito un’interruzione della gravidanza per poter fare le cure previste, ma lei rifiuta e trova un’equipe di medici a Milano che le consentono di procedere con le cure mantenendo la vita nel suo grembo.

Dopo circa un anno di cure, nel 2013 nasce Giacomo e Caterina viene definita guarita.

Nel 2015 però si trova con nuove metastasi al fegato, le quali rendono impossibile l’approccio chirurgico. Caterina si affida così alla chemioterapia.

Le terapie sono davvero pesanti, ma lei non cede e varie volte organizza con il marito pellegrinaggi a Lourdes e a Medjugorje per pregare per la sua salute e per quella di tanti altri. Questi viaggi diventano occasione di incontro con molti ammalati e le loro famiglie. Caterina rimane per molti un esempio da seguire: affronta la malattia affidandosi totalmente alla Madonna, “con letizia e certezza del bene dell’Amore di Dio”.

“Alla nostra famiglia il Signore sta chiedendo tanto, perchè la malattia sta un pò stringendo…non voglio nascondere nulla, l’ultimo periodo, ma l’ultima settimana soprattutto, a me sta veramente insegnando tanto, perchè senza fare sconti quello che ti trovi a vivere in un momento, quando il giorno prima magari hai, come dire, tutto chiaro, il giorno dopo ti trova con addosso l’unica cosa che è veramente tua, che è la tua miseria! Basta una notizia che destabilizza un po’ o che ti fa capire che quel momento, così tanto temuto è iniziato, che tutto ciò che prima potevi pensare di aver messo nel tuo bagaglio come “cosa imparata” o come “cosa saputa”, in un istante crolla. Per me questi ultimi giorni è stato proprio così, di fronte alla malattia che stava stringendo, da un giorno all’altro mi sono trovata ad essere salda nella fede e nel tutto, ad essere la più misera di tutti, ma è proprio lì che ti accorgi veramente che tutto quello che ti viene dato è una grazia, che tutto è regalato…Dio ci regala tutto in ogni istante!”

Nasce, tramite gruppi WhatsApp, una comunicazione del suo modo di vivere e Caterina continua ad incontrare persone che grazie a lei e al marito si riavvicinano alla chiesa.

Nel 2018 la malattia peggiora drasticamente, invade infatti anche il cervello con varie metastasi. Cosciente di ciò che le sta accadendo decide di anticipare la Prima Comunione della primogenita per vivere i giorni di festa in famiglia.

Il clima di festa rimane anche quando la situazione peggiora e il 7 febbraio Caterina entra in uno stato comatoso, tutti si riuniscono attorno a lei per pregare e cantare. La sua casa diventa meta di pellegrinaggio di molte persone.

Il giorno seguente muore e i funerali si svolgono il 9 febbraio nella Basilica della Santissima Annunziata a Firenze.

(fonte: https://www.caterinamorelli.org/it/)

MARCOS POU: IL CHIAMATO DA DIO

[…] La vita comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa o in qualunque altra, è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani. Questo capitava nella comunità santa che formarono Gesù, Maria e Giuseppe, dove si è rispecchiata in modo paradigmatico la bellezza della comunione trinitaria. Ed è anche ciò che succedeva nella vita comunitaria che Gesù condusse con i suoi discepoli e con la gente semplice del popolo.

(Papa Francesco, GE 143)

 
Marcos Pou nasce il 20 settembre 1991 a Barcellona. Figlio di due genitori cattolici è il secondo figlio di sei.

Sin da piccolo frequenta ambienti cattolici. Alla tenera età di 12 anni esprime il desiderio di diventare sacerdote ma “senza sapere perché”.

Nel tempo perde questo desiderio verso la consacrazione ed aumenta l’inquietudine. Inizia a perdere l’interesse per la messa e Dio, per qualche tempo infatti la vita si “riduce al calcio e alle ragazze” con cui il rapporto rimane sempre ambiguo. Un pomeriggio va a trovare una ragazza con cui ha avuto una storia, esce da casa di lei, si gira per salutarla e la porta è già chiusa. “Lì ho avuto un’intuizione: no, io non sono fatto per trattare così e per essere trattato così”. Nonostante la delusione non smette di credere che ci sia qualcosa di più grande, per questo si ferma spesso davanti al silenzio del mare o ad un tramonto, ammirando sempre le meraviglie del creato.

La sua fede aumenta sempre di più e da collegiale inizia a frequentare il movimento di “comunione e liberazione” accompagnato da un gruppo di professori. Prova molta stima e ammirazione nei loro confronti, affascinato dalla passione che hanno per la vita, per ciò che spiegano e dall’amicizia che hanno tra loro, decide di passare con loro anche il tempo libero, partecipando quindi alle gite e alle catechesi che organizzano con il movimento.

Del movimento, infatti, rimane colpito dal fatto che “la persona umana è stata creata con un cuore che anela al bene, alla bellezza e alla verità, e che solo Cristo è capace di rispondere a questi desideri dell’uomo”.

La madre racconta che a sedici anni hanno visto qualcosa in lui del quale erano convinti non avergli trasmesso, era “una gioia strana, la gioia piena della fede”. Lei, infatti, si definisce cristiana in ricerca; dice ancora: “non riuscivamo mai ad essere all’altezza del Dio che conoscevamo”. Per questo anche i genitori iniziano un cammino nel movimento. Negli scritti ritrovati, Marcos definisce questo come “uno dei doni più grandi di Dio” il poter fare questa strada insieme a loro.

Terminato il liceo si iscrive alla facoltà di fisica meravigliato dalle stelle e dall’universo che lasciano traccia del Creatore, ancora una volta compare la domanda vocazionale che però poi si affievolisce. Anche in quell’ambiente si radicalizza con gli amici di CL promuovendo convegni per studenti.

A Madrid si innamora di una ragazza, “il cuore più bello che io abbia incontrato”. Il loro rapporto si definisce immerso in un desiderio di eternità, però con grande fatica decide di lasciarla perché sente che il Signore gli sta chiedendo altro.

A 20 anni svolge la prima attività di volontariato missionaria a Calcutta, dove il suo cammino di fede inizia a farsi sempre più profondo. Al ritorno partecipa alla GMG di Madrid e inizia un cammino di discernimento vocazionale per una possibile vocazione al sacerdozio.

Si dedica sempre alla parrocchia, ai bisognosi e all’università. Ogni venerdì pomeriggio dopo le lezioni partecipa all’adorazione eucaristica invitando amici e familiari. Si interessa sempre a tutti e vuole donarsi, un amico infatti racconta che “se non usava bene il tempo, aveva dolore”, per questo lava i piatti in casa o passa i giorni in un lebbrosario in India: il valore per lui è identico.

L’11 febbraio 2015 entra nel seminario Conciliare di Barcellona, pochi istanti prima della partenza i genitori gli scrivono un messaggio “adelante Marcos, siempre!” perché lo strappo è grande, ma la promessa del Signore infinita.

10 giorni dopo muore in un incidente stradale su uno scooter. La madre racconta che la notte in cui è morto ha dialogato con Dio dicendo: “Sì, Signore, sì a tutto”. La morte di Marcos viene definita dal padre come “una vocazione, un regalo doloroso, ma un regalo. Non è possibile non vedere quello che sta fiorendo intorno a noi”.

Il 22 febbraio di quello stesso anno il corpo di Marcos viene depositato con il cero nella cappella dei martiri del seminario dove vengono svolte le cerimonie funebri.

Marcos è sepolto al cimitero San Gervasio dove, ancora oggi, molti vengono ad affidarsi alla sua intercessione.

Nell’ultima testimonianza fatta ad un gruppo di giovani dice: “Dio è capace di metterti una cosa nel cuore e di permettere che tu viva come se non l’avesse messa. Dio non forza mai. Fa solo una proposta. Poi ci sono le conseguenze dell’assecondarla o no ma questo è un altro tema…”.

(fonti: https://www.marcospou.com/quien-es-marcos-pou/,
https://it.clonline.org/storie/mondo/2016/07/01/s%C3%AC-a-tutto)

PAOLA ADAMO: LA GIOVANE ARTISTA

La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante. In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri […]. Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale. San Giovanni della Croce diceva a un discepolo: stai vivendo con altri «perché ti lavorino e ti esercitino nella virtù».

(Papa Francesco, GE 141)

 
Paola Adamo nasce il 24 ottobre 1963 a Napoli e proprio quel giorno viene battezzata. I suoi genitori, entrambi architetti, immersi nelle realtà salesiane sono i suoi catechisti che l’accompagnano e la preparano alla prima comunione e alla cresima che riceve solo due anni dopo.

Ragazza molto attiva, fa danza classica, nuoto e suona la chitarra. Diventa modello per la santità vissuta nel quotidiano. Lei dona amore a tutte le persone che le stanno intorno, soprattutto ai più bisognosi.

All’età di 9 anni inizia a tenere un diario, nel quale si intuisce già dalla sua giovane età il desidero di conoscere sempre di più Dio e di fare la sua volontà:

“Se Dio è la sorgente di tutte le cose, solo Lui ci potrà fare davvero felici!”.

“L’uomo deve fare solo ciò che può fare e non ciò che vuole fare, altrimenti diventa solo causa di disastri”.

“Se credi in Dio, hai il mondo in pugno”.

Ogni sera legge la biografia di San Giovanni Bosco e fa l’esame di coscienza con molta attenzione, molto pentita “delle ore sfuggite così stupidamente” e si trova spesso con gli occhi pieni di lacrime.

Durante la preparazione alla cresima, all’età di quasi undici anni le viene posta una domanda: “Che cosa pensi della morte?” “Penso che è una cosa terribile, ma basta pensare a Dio, basta pensare che un giorno risusciteremo e che avremo la vita eterna, non si ha più paura della morte”.

Frequenta il liceo artistico a Taranto legando maggiormente le ragazze emarginate dal resto della classe, che contagia con la sua gioia di vivere.

Salda nei suoi principi, cerca di vivere da creatura “vera” soprattutto nel quotidiano per rendere tutti gli ambienti che frequenta dei luoghi con “clima di gioia e di intensa unione fraterna”.

Una mattina, all’età di 15 anni lamenta un dolore al fianco destro, ma convinta dai genitori va comunque a scuola e affronta la sua giornata, perché come figlia di un docente non può dare il cattivo esempio. La sera di quel giorno però la situazione non migliora, anzi, le sale pure la febbre. Il giorno dopo parte ugualmente per Napoli per trascorrere le vacanze. Dopo un paio di settimane viene ricoverata in clinica dove le viene diagnosticata un’epatite virale, malattia già incontrata in tenera età.

Durante l’ultimo viaggio per l’ospedale di Napoli è molto preoccupata: “Papà, perché siamo a Napoli? Papà, cosa ho di grave? Papà, ma quando guarirò? Ma guarirò? Papà aiutami!”.

Riceve l’unzione degli infermi, il padre cerca di consolarla ma lei sa che non c’è più niente da fare.

Dopo qualche giorno, muore. Ai suoi genitori viene annunciato: “Paola non soffre più, è in pace. Da Dio”.

(fonti: https://www.rosarioonline.altervista.org, https://www.paolaadamo.it/, https://www.santiebeati.it/)

LORENA D’ALESSANDRO: LA GIOVANE MISSIONARIA DELL’AMORE

Chiediamo al Signore la grazia di non esitare quando lo Spirito esige da noi che facciamo un passo avanti; chiediamo il coraggio apostolico di comunicare il Vangelo agli altri e di rinunciare a fare della nostra vita un museo di ricordi. In ogni situazione, lasciamo che lo Spirito Santo ci faccia contemplare la storia nella prospettiva di Gesù risorto. In tal modo la Chiesa, invece di stancarsi, potrà andare avanti accogliendo le sorprese del Signore.

(Papa Francesco, GE 139)

 
Lorena D’Alessandro nasce il 20 novembre 1964 a Roma, nella Borgata La Rustica.

Primogenita di tre figli, fin da piccola inizia a frequentare la parrocchia, nonostante la famiglia non sia molto religiosa.

A soli 10 anni viene ricoverata al Policlinico Gemelli, dove subisce un trapianto osseo a causa di un tumore alla gamba sinistra. Due anni dopo, il tumore si ripresenta e i medici, in accordo con i genitori di Lorena, decidono di amputarle la gamba pur di salvarle la vita.

Ricorda così la mamma di Lorena: “Non so ancora oggi spiegarmi come Lorena accettò tutto questo, io mi ribellai tremendamente. Era lei che consolava me, il papà e tutti, e per ognuno aveva una parola di speranza e di fiducia. Ci diceva: «State tranquilli, sono sempre la stessa, sto bene, farò tutto ugualmente anche con una gamba ortopedica»”.

Gli anni passano: Lorena studia al liceo classico, fa la catechista, suona e canta nell’animazione della Messa ed entra a far parte del gruppo parrocchiale del Rinnovamento dello Spirito Santo.

Lorena ha fretta di fare, di rendersi utile: sa che da un momento all’altro il tumore potrebbe nuovamente manifestarsi.

I suoi amici la ricordano sempre impegnata, sensibile e pronta ad aiutare gli altri; ammirano il suo coraggio e la sua disponibilità.

Nel 1980 Lorena inizia a scrivere il suo diario spirituale: “Ho capito che la mia felicità è e sarà sempre nel servire la felicità degli altri; io potrò aiutare il mondo se agisco con amore, a forza di amore, a colpi di amore; sento fortissimo in me il desiderio di darmi agli altri; voglio bene a tutto il mondo. Sono tanto provata, ma ho Gesù con me e vicino a me, colui che non mi tradirà mai… perciò perché avere paura? Nel dolore ho capito che la cosa più importante è vivere l’amore, d’amore per il Signore e per i fratelli”.

Lorena manifesta il desiderio di laurearsi in medicina per partire missionaria e curare i sofferenti, soprattutto i bambini. Così scrive nel suo diario: “Voglio partire missionaria. Andare da chi può avere bisogno di me. Il mio sguardo è la dove i bimbi muoiono aspettando forse anche il mio aiuto!”.

Nell’estate del 1980, al rientro da un pellegrinaggio a Lourdes, la sera dell’8 settembre, Lorena scrive il suo testamento, in cui dà anche precise disposizioni per il suo funerale.

Io, Lorena D’Alessandro, esprimo, nel pieno delle mie facoltà mentali, le ultime volontà (che vi prego di rispettare).
Il mio corpo dovrà essere tumulato nella terra, in una bara, il più semplice possibile.
Non voglio fiori al mio funerale, i soldi che devono essere così inutilmente spesi, siano inviati come aiuto alle missioni dei padri Benedettini Silvestrini.
Vorrei che il rito fosse concelebrato dai sacerdoti della mia parrocchia […]; sull’esempio di tutti loro ho capito cosa vuol dire vivere in Cristo e per Cristo.
Vorrei che ad animare il rito fossero i miei fratelli catechisti: cantino inni di gioia perché la morte è una liberazione, è un passare alla gioia eterna.
Non voglio assolutamente che si porti lutto. Non servitevi di banali atti esteriori, ma serbate il mio ricordo nel cuore; non piangete, ma gioite per me, perché finalmente, se il Signore mi riterrà degna, potrò partecipare alla gioia eterna.
Se le condizioni della mia morte lo richiedessero, sia autorizzata l’autopsia.
Dono tutti i miei organi, se le malattie che ho avuto lo permetteranno, a chi soffre.
[…]
Lascio (come scrisse Follereau) tutto il bene che ho fatto, lascio i poveri del mondo, lascio chi soffre nello spirito e nel corpo, alle preghiere di tutti.
Scusatemi se chiedo molto, ma vi scongiuro di rispettare quanto ho scritto.
Con infinito amore Lorena.

Lorena registra anche alcune considerazioni a voce:

[…] Se io farò della mia vita una vita d’amore, vale la pena di vivere, se alzo gli occhi dalla triste realtà di un momento, vale la pena di vivere, se penso alla mia comunità e allo splendido cammino che stiamo facendo insieme, vale la pena di vivere! Sì, vale la pena di vivere una vita, fatta di imprevisti e di paura, fatta d’odio e d’amore, fatta di guerre e di pace, fatta di gioia, fatta di te, o Signore! Questa è la mia vita, queste tutte le mie incertezze, questi tutti i miei dubbi. Questa sono io, una ragazza di 16 anni, con tanta esperienza alle spalle, che i casi della vita hanno maturato forse troppo in fretta. Fino a tre anni fa la mia vita era un’esistenza che il mondo definisce normale! Poi è successo qualcosa, qualcosa che mi ha fatto capire quanto fossero futili tutte le cose che fino allora avevo fatto, qualcosa che mi ha fatto capire che c’è un Qualcuno più importante di tutto e di tutti, c’è il MIO DIO! Tre anni fa, a causa di un tumore, di un tumore osseo, mi è stata amputata la gamba sinistra. Questo è il fatto che io ritengo più importante, oltre che più felice, in tutta la mia vita. Da quel momento ho capito che non era gioia correre, che non era gioia saltare, che non era gioia in qualche modo imporsi ai danni degli altri. No, non era questo. Era gioia vivere con te, con te, Signore. Ho capito che la cosa più importante era vivere d’amore, vivere per amore, vivere con amore! Solo così, solo così si può cambiare il mondo amandolo per quello che è, amandolo come è. […]

Nel gennaio 1981 il tumore riappare al polmone sinistro con metastasi diffuse. I medici danno a Lorena tre mesi di vita, ma Lorena non si perde d’animo: scopre il vero senso della sofferenza e continua a sorridere alla vita, infondendo coraggio a chi gli sta accanto; non si chiude in se stessa, ma si apre alla carità, abbandonandosi con fiducia alla volontà di Dio; non fa pesare sugli altri la sua malattia e, sostenuta dalla preghiera e dai sacramenti, testimonia gioiosamente la fede tra i suoi coetanei.

Tutti rimangono colpiti dalla serenità con cui Lorena affronta la malattia.

Lorena vive intensamente gli ultimi tre mesi della sua vita terrena: vive le sofferenze come partecipazione alla croce di Cristo.

Il 3 aprile 1981, Lorena incontra “sorella morte”, a soli 16 anni.

L’8 aprile 2003, presso il Vicariato di Roma, si è chiusa la fase diocesana della causa di Beatificazione e il 20 maggio 2023 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui Lorena veniva dichiarata Venerabile.

(fonte: https://www.santiebeati.it, https://www.causesanti.va/it.html, http://www.lorenadalessandro.org/)

LUCA PASSAGLIA: UN PICCOLO PRODIGIO DI DIO

Quante volte ci sentiamo strattonati per fermarci sulla comoda riva! Ma il Signore ci chiama a navigare al largo e a gettare le reti in acque più profonde (cfr Lc 5,4). Ci invita a spendere la nostra vita al suo servizio. Aggrappati a Lui abbiamo il coraggio di mettere tutti i nostri carismi al servizio degli altri. Potessimo sentirci spinti dal suo amore (cfr 2 Cor 5,14) e dire con san Paolo: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16). Guardiamo a Gesù: la sua compassione profonda non era qualcosa che lo concentrasse su di sé, non era una compassione paralizzante, timida o piena di vergogna come molte volte succede a noi, ma tutto il contrario. Era una compassione che lo spingeva a uscire da sé con forza per annunciare, per inviare in missione, per inviare a guarire e a liberare. Riconosciamo la nostra fragilità ma lasciamo che Gesù la prenda nelle sue mani e ci lanci in missione. Siamo fragili, ma portatori di un tesoro che ci rende grandi e che può rendere più buoni e felici quelli che lo accolgono. L’audacia e il coraggio apostolico sono costitutivi della missione.

(Papa Francesco, GE 130-131)

 
Luca Passaglia nasce il 29 marzo 1999 a Pavullo nel Frignano, in provincia di Modena.

Appena dopo la nascita, i suoi genitori lo affidano alla Vergine Maria e, fin da subito, lo coinvolgono nei loro momenti di preghiera quotidiana. Ricorda così la mamma di Luca: “Non lavorando fuori casa, avevo tempo, al mattino, di portare Luca con calma a fare visita a Gesù in chiesa. Ricordo che il bimbo sovente raccoglieva tante margheritine da portare alla Madonna, amava correre verso le varie statue ed accendere tante candeline. Da quando aveva circa un anno iniziammo a portarlo anche alla Messa della domenica perché era molto tranquillo e non disturbava nessuno. Quando andavamo a fare la comunione, man mano che diventava grande, ci faceva molte domande e noi cercavamo di rispondere nel modo che ci sembrava più consono ad un bimbo piccolo, pensando però sovente ed erroneamente, che un bambino così piccolo non avrebbe potuto comprendere molto… Quando gli rispondevamo che andavamo a ricevere Gesù, lui ci sorrideva”.

Per il resto, Luca è un bambino come tutti gli altri: ama disegnare e giocare con le costruzioni. Sua mamma lo ricorda così: “Luca era un bambino riflessivo e calmo, buono e sorridente, trasmetteva tanta serenità a chi lo incontrava. Non era affatto capriccioso e ubbidiva spontaneamente alle nostre correzioni. Un giorno il papà gli chiese: «Luca, ma perché tu mi dici sempre di sì quando ti chiedo le cose?». Luca serenamente gli rispose: «Papà, perché io voglio farti contento!». […] È da questa semplicità che il nostro piccolo imparò presto il Padre Nostro, l’Ave Maria, il Gloria al Padre, l’Angelo di Dio, la sequenza intera dello Spirito Santo e la Salve Regina, la sua preghiera preferita”.

Luca si rivolge spesso alla Madonna con queste parole: “Ti voglio bene Madonnina, fai la nanna vicino a me”.

Tutto sembra andare bene, ma “i primi sintomi del male accaddero il 22 maggio 2002, giorno di Santa Rita. Luca non riusciva più a camminare e aveva forti dolori alle gambe, che lo facevano piangere continuamente notte e giorno. Furono quindi dei sintomi così violenti e inaspettati che lasciarono presagire a me e a mio marito qualcosa di grosso. […] Luca, passando davanti alla Cappellina dell’ospedale, mi disse: «Mamma andiamo a tenere compagnia a Gesù, se no piange». […] Lì subito compresero che si trattava di una rarissima forma tumorale della prima infanzia, con metastasi in tutte le ossa e nel midollo, il neuroblastoma. Dopo lo shock iniziale, mio marito ed io per una grazia speciale, solo per grazia, anche se desolati, accettammo la croce, nella sua nudità e nella sua freddezza, senza tante chiacchiere, come un compito da svolgere, come la volontà di Dio che è sempre da fare nel bene e nel male. […] Luca soffriva immensamente e non parlava più, era tutto un lamento e tante piccole goccioline di sudore gli fuoriuscivano dalla pelle del viso quando era angosciato e dolorante. Voleva essere costantemente tenuto in braccio, lo vedevo deperire vertiginosamente. Prima di entrare nel reparto di oncologia pediatrica Luca mi disse con forza: «Mamma dammi la statuina della Madonnina che voglio darle un bacio». Immediatamente iniziò per lui, per la sua guarigione, come una cordata di preghiera che coinvolse anche persone all’estero: amici, sacerdoti, monasteri di clausura, gruppi di preghiera parrocchiali e persino diversi amici non praticanti”.

Luca rimane in ospedale per lunghi nove mesi, durante i quali si sottopone a diversi cicli di chemioterapia, ad un intervento per l’asportazione di una massa tumorale nel surrene destro e ad un trattamento di autotrapianto di midollo osseo. Luca sopporta tutto con grande serenità, senza lamentarsi mai, infondendo coraggio a chi gli sta vicino.

Ricorda ancora la mamma di Luca: “Era lui a dare sempre la forza a noi con la sua serenità e dolcezza. Accettava sempre con mansuetudine, a differenza nostra che sovente diventavamo nervosi e impazienti, tutti i sacrifici che stava vivendo. Era sempre attento alle sofferenze degli altri bambini e capitava che spontaneamente, sentendo le loro grida di dolore, pregasse per loro l’Angelo di Dio. Altre volte, quando dovevamo lasciare la stanza dell’ospedale, voleva che lasciassi l’immagine della Madonna di Medjugorie nella camera: «Così potrà aiutare un’altra mamma che verrà qui dopo di noi»”.

Nella primavera del 2003, Luca viene dimesso dall’ospedale e, nel giro di pochi mesi, riprende a camminare e a correre. Impara a leggere e a scrivere, inizia a frequentare la scuola materna e continua a crescere nella fede. Alcuni fine settimana, insieme alla sua famiglia, va a visitare qualche Santuario per rafforzare lo spirito.

Tutto sembra tornato alla normalità, ma “in ottobre, in piena notte, Luca si svegliò urlando dal male. Da lì a venti giorni eravamo di nuovo daccapo e tornammo nell’ospedale di Torino. I dolori ossei che la prima volta lo colpirono alle gambe, questa volta erano localizzati nelle braccia e nelle spalle. Purtroppo il tumore a quel punto iniziò a prendere possesso dei polmoni, in particolar modo di quello sinistro. «Mamma, non ne posso più» mi disse un mattino dispiaciuto di dover andare in ospedale”. È la prima volta che Luca si lamenta.

Grazie ad un libretto sulla vita dei Pastorelli di Fatima, Luca riesce a dare un senso al suo dolore. Ricorda così sua mamma: “In quell’epoca una nostra amica portò al bambino, di ritorno da Fatima, un libretto sulla vita dei pastorelli e sul compito che la Madonna aveva assegnato ai bambini: offrire le proprie sofferenze più piccole per la conversione dei grandi peccatori. Non so fino a che punto, a quattro anni e mezzo, Luca avesse la percezione della cattiveria del mondo, visto che era cresciuto in un ambiente sereno, dove tutti si comportavano con lui molto bene anche per via della sua malattia. Ma amava molto che gli leggessi quel libro e penso che qualcosa riuscì veramente ad interiorizzare, perché spontaneamente un giorno scrisse in una letterina: “Vado in ospedale a offrire a Gesù”. Un giorno sorridendo mi disse: «Sai mamma, Gesù mi vuole tanto bene»”.

Da quel momento, Luca diventa un faro che indica a tutti la via per il Cielo.

Nei momenti di maggior sofferenza, Luca cerca la compagnia di Gesù: prende il Crocifisso e se lo stringe accanto a sé dicendogli: “Stai qui Gesù, fai la nanna vicino a me”.

Il 10 gennaio 2004 la situazione peggiora. Ricorda così quei momenti la mamma di Luca: “Soffriva molto alla gola sia per una fortissima mucosite, sia perché la trachea ed il cuore venivano spostati verso destra dal polmone ingrossato dal tumore. Respirava con l’ossigeno, e anche questa volta non aveva posto resistenza alla mascherina, per quanto gli desse molto fastidio. Parlava poco, non poteva più mangiare, continuavamo a sperare nella guarigione ma per la prima volta in un anno e mezzo, mio marito ed io sentimmo nel cuore che era giunto il tempo di affidarci completamente alla volontà di Dio senza più chiedergli il miracolo. Lunedì 19 gennaio il primario disse tristemente che era solo questione di due o tre settimane. In quelle ore Luca era particolarmente agitato, era sotto morfina, ma lo udii dire chiaramente: «Sono di Gesù». A quel punto, improvvisamente, l’agitazione gli scomparve”.

Il 20 gennaio, con dispensa del vescovo, Luca fa la Prima Comunione e la Cresima: è un momento di grande gioia, per lui e per i suoi genitori. Poco dopo la situazione precipita: Luca non ha più la forza di parlare, rimane nel letto con accanto a sé il Crocifisso. Ai genitori che si sono assopiti per la stanchezza, dice: “Pregate il Rosario”. È la sua ultima raccomandazione.

La mattina dopo, il 21 gennaio, memoria di Sant’Agnese, Luca entra nella gioia eterna del Paradiso.

(testi tratti dai siti https://www.gruppomariaportadelcielo.it/index.html e https://giovanisanti.wordpress.com/)

MARIO GIUSEPPE RESTIVO: IL GIOVANE POETA SCOUT

La santità è parresia: è audacia, è slancio evangelizzatore che lascia un segno in questo mondo. Perché ciò sia possibile, Gesù stesso ci viene incontro e ci ripete con serenità e fermezza: «Non abbiate paura» (Mc 6,50). «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Queste parole ci permettono di camminare e servire con quell’atteggiamento pieno di coraggio che lo Spirito Santo suscitava negli Apostoli spingendoli ad annunciare Gesù Cristo. Audacia, entusiasmo, parlare con libertà, fervore apostolico, tutto questo è compreso nel vocabolo parresia, parola con cui la Bibbia esprime anche la libertà di un’esistenza che è aperta, perché si trova disponibile per Dio e per i fratelli (cfr At 4,29; 9,28; 28,31; 2 Cor 3,12; Ef 3,12; Eb 3,6; 10,19).

(Papa Francesco, GE 129)

 
Mario Giuseppe Restivo nasce 24 gennaio 1963 a Palermo.

Primo di quattro figli, fin da piccolo manifesta una sensibilità e una vivacità straordinarie che lo rendono benvoluto e stimato da tutti.

Mario possiede un talento particolare per la poesia, tanto che, all’età di soli 9 anni, compone le sue prime opere poetiche e, due anni dopo, pubblica la sua prima raccolta di poesie, dal titolo “La mia aurora”, a cui ne fa seguito un’altra, intitolata: “In cammino”. Una terza raccolta, dal titolo “La stagione dell’incontro”, verrà pubblicata postuma. Le due raccolte hanno molto successo e Mario riceve elogi anche dal Santo Padre e dal Presidente della Repubblica.

Affascinato dalla figura di San Francesco, Mario, adolescente, lo sceglie come modello di vita, impegnandosi con coraggio ad imitarne lo spirito di povertà. È nello scautismo cattolico che Mario trova la via per realizzare questo suo impegno, dove poter esprimere la sua passione giovanile e il suo spirito di servizio, dove poter testimoniare la sua fede e la sua gioia di vivere con e per gli altri.

Mario nutre un ardente e costante desiderio di “andare oltre verso l’infinito” per conquistare la vera felicità: “La vera felicità si conquista nell’amore per Dio e per gli altri. È fede in Dio, nella vita. È solidarietà gioiosa. Tutto il resto è apparenza e vanità”.

Convinto che questa sia la strada giusta, Mario si dedica con passione all’educazione dei più piccoli, diventando capo, nonostante la sua giovane età, e pregando intensamente Dio di accompagnarlo in quest’avventura affascinante e impegnativa.

Durante il Campo Scout di Pasqua del 1982, Mario scrive questa riflessione:

“Non avete saputo vegliare con Me neppure un’ora”

“È pensando a queste parole che mi sono alzato prima del solito stamattina per venire qua davanti a Te, Signore. Sai, non ero abituato a sentirTi una presenza, ma ora, in quest’alba di uno splendido mattino che ancora una volta ci dai, Tu ci sei: sento il tuo battito in me, ma anche fuori di me. In me, poiché la mia disponibilità dell’essere qui stamattina, come dell’aver partecipato a questo campo, vive del tuo amore verso di me; fuori di me perché tutto qui attorno è buono, poiché proviene dalla Tua onnipotenza: il cielo, il bosco, gli uccellini, l’erbetta, le foglie secche, reliquia di un autunno ormai lontano, il freddo, il silenzio, l’orizzonte”.

“Signore, dammi sempre un inizio, dammi soprattutto la morte che lo precede, aiutami ad educare al vero amore le persone che mi stanno attorno. Dio, guidami sulla strada del ritorno, affinché la mia casa divenga la Tua casa, la mia vita diventi la Tua vita”.

“Signore, dammi il coraggio, la comprensione e l’umiltà alla maniera del tuo Figlio. Ti prego per le persone smarrite, per chi non sa ancora da che parte andare, eppure ci va. Dammi la spontaneità e la fantasia perché sia un ragazzo tra i ragazzi. Ti prego perché non muoia in me la speranza”.

“E, quando sono solo, Signore, quando a sera busso alla porta di qualcuno e nessuno mi dà risposta, ricordaTi di me e rendimi capace di sorridere. Fa’ che possa sempre darmi agli altri in umiltà e completa condivisione. Nel mio cuore, Signore, troverò il posto per le mille vite dell’universo”.

“E, ora, Signore, lascia che il Tuo servo vada in pace secondo la tua parola, fa’ che il tuo servo abbia il coraggio di uccidere le sue maschere. Amen”.

A luglio 1982 consegue il diploma di maturità classica.

Il mese seguente decide, insieme ad altri scout, di partecipare ad alcuni giorni di spiritualità a Taizè, ma durante il viaggio, nei pressi di Chambéry, in Francia, Mario incontra la morte in un incidente automobilistico. Ha solo 19 anni.

Il 12 marzo 2006 il vescovo di Cefalù avvia il processo di beatificazione.

Il ricordo di Mario è ancora vivo nel cuore di tanti giovani, soprattutto dei giovani scout che egli ha amato intensamente e di cui è stato maestro, modello e guida.

(testi tratti dai siti https://amicimassariotta.blogspot.com/ e https://sites.google.com/site/santiebeatiscout/home/mario-giuseppe-restivo)

CARLA RONCI: UNA GIOVANE LAICA CONSACRATA A SERVIZIO DELLA CHIESA

Ci sono momenti duri, tempi di croce, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale, che «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto».[100] È una sicurezza interiore, una serenità piena di speranza che offre una soddisfazione spirituale incomprensibile secondo i criteri mondani. Ordinariamente la gioia cristiana è accompagnata dal senso dell’umorismo […]. Il malumore non è un segno di santità: «Caccia la malinconia dal tuo cuore» (Qo 11,10). È così tanto quello che riceviamo dal Signore «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), che a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio.[101] Il suo amore paterno ci invita: «Figlio, […] trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Ci vuole positivi, grati e non troppo complicati: «Nel giorno lieto sta’ allegro […]. Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni» (Qo 7,14.29). In ogni situazione, occorre mantenere uno spirito flessibile, e fare come san Paolo: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (Fil 4,11). È quello che viveva san Francesco d’Assisi, capace di commuoversi di gratitudine davanti a un pezzo di pane duro, o di lodare felice Dio solo per la brezza che accarezzava il suo volto.

(Papa Francesco, GE 125-127)

 
Carla Ronci nasce l’11 aprile 1936 a Torre Pedrera, vicino Rimini.

È una bella bambina, buona e affettuosa, vivace e comunicativa. All’età di 6 anni, ancora prima di iniziare la scuola, riceve i sacramenti della Confessione, Comunione e Cresima.

Crescendo, Carla è una ragazza tra le tante: ama divertirsi e andare al cinema e al mare con le amiche, le piace ballare e leggere storie d’amore. È bella e dall’aspetto sempre molto curato. Lei stessa disegna e cuce i suoi abiti: “Vesto con modestia ed eleganza e cerco di far capire, con la mia vita, che il Cristianesimo vissuto, non è croce, ma gioia”.

All’età di 14 anni, un incontro improvviso con le suore Orsoline le cambia radicalmente la vita. Lei stessa racconta: “Era l’anno 1950: vedevo tutte le mattine le suore Orsoline recarsi alla messa con tanto freddo d’inverno e alle volte con tanta neve. Tante volte mi ero affacciata all’asilo e anche là le avevo trovate tanto raccolte e così pie. Sempre serene. Tanto povere. Incominciai a riflettere: ma perché fanno quello che fanno? E per chi, se i bambini sono degli altri e le retribuiscono così poco? E perché sono così felici e tanto serene nella loro povertà e nelle loro privazioni? […] La mia anima aveva bisogno d’altro; aveva sete, sete dell’amore di Dio. Così ho incominciato a frequentare la chiesa e i sacramenti più spesso, trovando in essi tanta pace e tanta gioia. […] Fino a quattordici anni ho corso affannosamente dietro a tutto ciò che credevo potesse colmare il vuoto e l’ansia che avevo dentro di me: cercavo di stordirmi con un divertimento dietro l’altro, ma invano… Ho resistito alla grazia divina fino agli ultimi giorni del 1949″.

Da questo momento Carla decide di offrirsi vittima di espiazione e di propiziazione per la santificazione dei sacerdoti. Scriverà qualche anno dopo: “Signore ho solo questo mio cuore che è pieno di te che sei l’infinito. Questo ti offro per i tuoi sacerdoti. Eccoti tutta la mia vita. Se vuoi una vittima di riparazione per le loro cadute, per le loro infedeltà, per quello che non fanno e dovrebbero fare, per quello che fanno e non dovrebbero fare, Signore, per essi mi offro vittima, disposta a tutto, tutto, ma che non ci manchi il tuo sacramento, perché il sacerdote è un sacramento di te, Signore, che sia puro e illibato come tu lo hai voluto”.

Il 20 ottobre 1956, all’età di 20 anni, Carla fa voto di castità. Da questa consacrazione a Dio la sua femminilità esce trasfigurata. Scrive nel suo diario: “La femminilità è una proprietà che conquista e attira; la femminilità dell’anima consacrata a Dio deve essere così dolce e soave da attirare tutti a sé per condurre poi al Signore… Sono contenta di essere donna, perché il Signore ha dato alla donna il dono dell’intelligenza intuitiva ed è tanto bello intuire i bisogni degli altri, essere materne comprensive…”. Il suo modello è Maria Santissima: “La femminilità deve essere come quella della Madonna: pura e casta”.

L’anno seguente, il 19 agosto 1957, fa voto di povertà: tutto ciò che possiede ora non è più suo, ma dei poveri; di tutto lei è solo una semplice amministratrice generosa. In tutti, Carla, vede il volto di Cristo da amare e da servire.

Carla vive una singolare, autentica e mistica esperienza di fede, tanto da diventare una cosa sola con Cristo: “Ho tanta pace nel cuore e il solo pensiero che possiedo Gesù mi fa provare una gioia tale che a parole non si può spiegare. Sono felice di essere nelle mani di Dio e di essere da lui tanto amata”.

A 21 anni scrive: “Da quando sono nata, mi sono messa in viaggio per arrivare al Cielo”. Carla matura la scelta di farsi suora e nel febbraio 1958 entra nel convento delle Orsoline di Gaudino, vicino Bergamo, nonostante il parere contrario dei genitori, delle amiche e del parroco. Dopo appena quattro mesi, a causa delle frequenti visite e lettere minatorie del padre, Carla è costretta a tornare a casa.

Ritornata in famiglia, grata dell’esperienza appena vissuta, Carla si prodiga per l’edificazione della sua parrocchia: dal catechismo all’Azione Cattolica, dall’animazione della liturgia alla cura della chiesa, dalla gestione finanziaria della parrocchia al funzionamento della biblioteca parrocchiale e di una piccola sala cinematografica per i bambini; tutto compie con passione ed entusiasmo. Apre anche il “Cenacolo dei piccoli”, una specie di pre-seminario allo scopo di suscitare vocazioni sacerdotali, missionarie e religiose.

Carla possiede una particolare dedizione per l’educazione e la formazione dei più giovani a cui dedica tempo e ascolto, diventando presto la madre spirituale di molte ragazze: “Com’è bello, Gesù, vivere in mezzo alle adolescenti. È difficile capirle e bisogna essere pazienti e seguirle, però è bello, tanto bello!”.

Nel frattempo, Carla continua la gioiosa ricerca della sua vocazione; ripete spesso: “Voglio fiorire dove Dio mi ha seminata”. E un giorno annota sul proprio quaderno degli appunti: “Solo i santi lasciano tracce, gli altri fanno solo rumore”.

Nel 1961, all’età di 24 anni, entra nell’istituto secolare “Ancelle Mater Misericordiae” di Macerata e due anni dopo, il 6 gennaio 1963, fa la professione come laica consacrata.

Scrive Carla: “Oggi il Signore ha bisogno di testimoni che lo facciano sentire, più che con le prediche, con la propria vita e il proprio esempio. Oggi occorre che l’apostolato diventi una testimonianza personale di dottrina vissuta. È solo per lui che mi impegno affinché la mia vita sia una testimonianza viva, ovunque io mi trovi e qualunque cosa io compia”.

Nel suo cammino di giovane laica consacrata, Carla nutre un amore immenso per i sacramenti della Confessione e dell’Eucarestia: “Il pensiero che maggiormente mi ha toccato è questo: Dio è in me: io sono un tabernacolo vivente”.

Nell’agosto 1969 compaiono i primi sintomi della malattia, a cui fanno seguito alcune visite specialistiche che rilevano la presenza di un tumore ai polmoni: “Il buon Dio mi sta provando con una infermità che credo decisiva per la mia missione. Ho dinanzi il mio crocifisso e, guardando lui, tutto mi diventa facile. Sono pronta ad ogni disposizione. So bene che la sofferenza non mi viene da lui, ma la gioia sì, e di questa ne ho tanta, che il resto non conta. […] Ho la sensazione che Gesù si stia distaccando dalla croce per lasciarmi il suo posto. Credo proprio che mi voglia crocifissa, perché lui sa che per me il soffrire con lui è una gioia”.

In ospedale, Carla vive momenti intensi di dolore e di aridità spirituale, seguiti sempre da momenti di conforto. Scrive al suo padre spirituale: “Il cuore a brandelli e il sorriso sulle labbra: ecco la nostra missione di questi giorni. Coraggio, padre, ormai il più è passato; Gesù non può chiederci di più perché non abbiamo più nulla da dare… Il mio motto è sempre lo stesso: per Gesù e per le anime: e quale forza mi viene da questa intenzione e da questa unione! Nonostante la paura sia tanta sento un gran desiderio di dare, di offrire, di amare e sento che nonostante tutto la vita è meravigliosa”.

Fino all’ultimo, Carla, nonostante sia molto provata dalla malattia, è sempre gioiosa e pronta ad ascoltare chiunque la va a trovare.

Il 2 aprile 1970, a 33 anni, dopo aver ricevuto l’Estrema Unzione, Carla muore, serena e lucida, pronunciando queste parole: “Ecco lo Sposo che viene”, chinando il capo sulle mani giunte in preghiera. Il medico e l’infermiera, in pianto, esclamano: “È morta una santa”.

Nel 1997 Carla è stata proclamata venerabile.

(testi tratti dal libro Testimoni di luce e dal sito https://www.chiesa.rimini.it/carlaronci/index.html)

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[100] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 6: AAS 105 (2013), 1221.
[101] Raccomando di recitare la preghiera attribuita a san Tommaso Moro: «Dammi, Signore, una buona digestione, e anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un’anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po’ di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia».