Parola di Dio

“La parola di Dio è viva, efficace […] discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.” (Eb 4, 12)

Lasciati interrogare dalla Parola di Dio: leggila, ascoltala, meditala, seguila. 


Abramo #4

AbramoContinuiamo a riflettere sulla figura di Abramo per vedere come la sua storia può parlare al nostro quotidiano…

 

Le riflessioni sono tratte da: P. Curtaz, Il cercatore, lo scampato, l’astuto, il sognatore, San Paolo, 2016.

 

 

Gen 16,1-15

1 Sarài, moglie di Abram, non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava egiziana chiamata Agar, 2Sarài disse ad Abram: “Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli”. Abram ascoltò l’invito di Sarài. 3Così, al termine di dieci anni da quando Abram abitava nella terra di Canaan, Sarài, moglie di Abram, prese Agar l’Egiziana, sua schiava, e la diede in moglie ad Abram, suo marito. 4Egli si unì ad Agar, che restò incinta. Ma, quando essa si accorse di essere incinta, la sua padrona non contò più nulla per lei.

5Allora Sarài disse ad Abram: “L’offesa a me fatta ricada su di te! Io ti ho messo in grembo la mia schiava, ma da quando si è accorta d’essere incinta, io non conto più niente per lei. Il Signore sia giudice tra me e te!”. 6Abram disse a Sarài: “Ecco, la tua schiava è in mano tua: trattala come ti piace”. Sarài allora la maltrattò, tanto che quella fuggì dalla sua presenza. 7La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto, la sorgente sulla strada di Sur, 8e le disse: “Agar, schiava di Sarài, da dove vieni e dove vai?”. Rispose: “Fuggo dalla presenza della mia padrona Sarài”. 9Le disse l’angelo del Signore: “Ritorna dalla tua padrona e restale sottomessa”. 10Le disse ancora l’angelo del Signore: “Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla, tanto sarà numerosa”. 11Soggiunse poi l’angelo del Signore:

“Ecco, sei incinta:

partorirai un figlio

e lo chiamerai Ismaele,

perché il Signore ha udito il tuo lamento.

12Egli sarà come un asino selvatico;

la sua mano sarà contro tutti

e la mano di tutti contro di lui,

e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli”.

13Agar, al Signore che le aveva parlato, diede questo nome: “Tu sei il Dio della visione”, perché diceva: “Non ho forse visto qui colui che mi vede?”. 14Per questo il pozzo si chiamò pozzo di Lacai-Roì; è appunto quello che si trova tra Kades e Bered. 15Agar partorì ad Abram un figlio e Abram chiamò Ismaele il figlio che Agar gli aveva partorito. 16Abram aveva ottantasei anni quando Agar gli partorì Ismaele.

 

Agar cacciata dalla casa di AmbramoSara, volendo l’erede ad ogni costo, decide di avere un figlio dalla sua schiava, Agar. Sara che era rimasta in silenzio, ora parla, prende in mano la situazione, dà ordini al marito.  Incapace di credere alla promessa cerca le sue soluzioni, prova lei a risolvere la situazione, anche perché in questo figlio che sarà sua proprietà, come la schiava, vede la sua gratificazione. Abramo ascolta la moglie e obbedisce… ma succede un gran pasticcio. Agar quando scopre di essere incinta rialza la testa, sapendo bene cosa significhi per Abramo quel figlio. Il grande patriarca, il padre dei credenti, è inchiodato dalla relazione con sua moglie e non interviene, né l’aiuta e vedere le cose in altro modo. Agar fugge di fronte a tanta malvagità e ingiustizia, non vuole subire e cerca di tornare al suo paese di origine. Ma Dio l’aspetta ad un pozzo, in sembianze di angelo: “Agar, schiava di Sari, da dove vieni e dove vai?”. È il primo che la chiama per nome, nel pericolo Dio si fa sentire. E La prima cosa che fa è quella di metterci davanti ad uno specchio, di farci crescere nella consapevolezza, pone domande, prima di offrire soluzioni. “Da dove vieni?” e “Dove vai?” Agar sa bene da dove viene, cosa vuole fuggire, ma non sa dove andare. L’angelo l’ascolta e la invita a tornare indietro, suo figlio sarà libero. Lei sarà sottomessa, ma suo figlio no! Riuscirà ad accettare la condizione servile, ma con un orizzonte di speranza… Ciò che abbiamo intorno spesso non cambia, l’unico modo per uscire da tante situazioni è cambiare lo sguardo. Agar tornerà dalla sua padrona, ma ora sa che non è sola. Suo figlio sarà Ismaele, Dio ha ascoltato. Sarà libero, pungolo nel fianco, colmo di coraggio…

Alla fine di questa storia i cui protagonisti continuano ad essere per nulla esemplari, l’erede c’è! Perché la storia dell’uomo, la nostra vita è fatta di fango e luce, ma Dio sempre rilancia la promessa e mai viene meno… Dio promette ad Agar, donna schiava, ciò che aveva promesso ad Abramo, uomo libero. Promette alla serva ciò che aveva promesso al padrone: una discendenza! È la prima volta che Dio parla ad una donna, schiava e a lei promette ciò che era stato detto al capostipite del popolo d’Israele. Folle Dio! La promessa fatta ad Abramo contagia Agar, la benedice… E qui in questo brano abbiamo il primo nome dato a Dio dagli uomini: colui che mi vede, colui che ho visto, colui che mi fa vedere!

Abramo #3

AbramoContinuiamo a riflettere sulla figura di Abramo per vedere come la sua storia può parlare al nostro quotidiano…

 

Le riflessioni sono tratte da: P. Curtaz, Il cercatore, lo scampato, l’astuto, il sognatore, San Paolo, 2016.

 

 

Gn 15, 1-19

1 Dopo tali fatti, questa parola del Signore fu rivolta ad Abram in visione: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». 2 Rispose Abram: «Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco». 3 Soggiunse Abram: «Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». 4 Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». 5 Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». 6 Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. 7 E gli disse: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese». 8 Rispose: «Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». 9 Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un piccione». 10 Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. 11 Gli uccelli rapaci calavano su quei cadaveri, ma Abram li scacciava. 12 Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco un oscuro terrore lo assalì. 13 Allora il Signore disse ad Abram: «Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in un paese non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni. 14 Ma la nazione che essi avranno servito, la giudicherò io: dopo, essi usciranno con grandi ricchezze. 15 Quanto a te, andrai in pace presso i tuoi padri; sarai sepolto dopo una vecchiaia felice. 16 Alla quarta generazione torneranno qui, perché l’iniquità degli Amorrei non ha ancora raggiunto il colmo». 17 Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi. 18 In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate; 19 il paese dove abitano i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, 20 gli Hittiti, i Perizziti, i Refaim, 21 gli Amorrei, i Cananei, i Gergesei, gli Evei e i Gebusei».

 

Abramo parla con DioQuesto brano mostra il primo dialogo tra Dio e Abramo, addirittura Abramo ha il coraggio di replicare, finora ha soltanto ascoltato e ubbidito. Ora parla e mette in dubbio la promessa. Dio gli aveva promessa una discendenza molte volte, ma nessun figlio è arrivato, quindi Abramo rinfaccia a Dio che non è stato capace, le sue promesse sono parole vuote. Il Signore nella sua pazienza svela il suo disegno, rilancia, alza il tiro… una discendenza numerosa nascerà da lui. Lo invita a guardare le stelle, ad allargare la sua prospettiva, a sognare, Dio realizza ciò che promette, ma mai come vorremmo! Abramo è stordito, non se lo aspettava, sceglie di credere. Per un attimo coglie con chi ha a che fare, e fa l’unica cosa da fare: zittisce! Quando pensiamo che il Signore ce l’abbia con noi accade che ci chiede di allargare lo sguardo.  E ci invita a fare memoria… La faccenda si fa seria, Abramo non sta parlando con qualsiasi divinità, ma con colui che ha intessuto le sue viscere… e tra i due si stabilisce un’alleanza attraverso un rito. Animali squartati, vite offerte, sacrificate, consumate divise a metà. Di solito i due che contraevano il patto passavano in mezzo, in questo caso sarà Dio, sotto il segno del fuoco, a passarvi, è lui che assume l’alleanza, che garantisce. Lui è fedele. Ciò che deve fare Abramo è cacciare i rapaci che vogliono portare via l’alleanza. Qui Abramo scopre che ha a che fare con Dio, non con una divinità dei popoli vicini. È quello che chiamiamo timor di Dio, consapevolezza dell’immensità di Dio, della misura della sua non misura… Abramo crede alla promessa, ora ha capito. Non sa come avverrà, ma si fida. A lui non importa sapere come, ma a Sara sì, moltissimo…

(Continua)

Abramo #2

AbramoContinuiamo a riflettere sulla figura di Abramo per vedere come la sua storia può parlare al nostro quotidiano…

 

Le riflessioni sono tratte da: P. Curtaz, Il cercatore, lo scampato, l’astuto, il sognatore, San Paolo, 2016.

 

Abramo ha settantacinque anni quando parte: la sua azione non è frutto di una scelta impulsiva, tipica di chi è giovane e pieno di curiosità, ma è, piuttosto, il passo meditato di chi ha visto e sperimentato il peso della vita.

Proprio quando pensa di avere concluso la sua vita, quando ha un lavoro, un ruolo, quando si è rassegnato all’assenza di figli, si rimette in gioco. Dio riserva sempre sorprese inattese e nel momento in cui non ci aspettiamo più nulla.

Non solo. Abramo parte portandosi dietro la sua storia, i suoi affetti più vicini. Abbandonarli sarebbe segno di indifferenza, non di libertà. Nel suo cammino deve ancora risolvere la relazione con sua moglie, con suo nipote, avrà del tempo per farlo. Non si parte mai totalmente liberi, si diventa liberi, ma non nel senso di lasciare per strada il nostro passato, di tagliare i ponti fisicamente con quanto ci ha preceduto, perché non sempre è opportuno o possibile farlo, bensì nel senso di ridefinire le relazioni, di viverle con una distanza che ci permette di accoglierle e interpretarle nella giusta prospettiva. Noi siamo anche il nostro passato, la nostra famiglia di origine, nostro padre, nostra madre, i nostri fratelli e sorelle. Noi siamo anche i nostri errori, le nostre scelte, le cose che abbiamo dovuto subire, le nostre ferite sanguinanti. Noi siamo anche i nostri limiti, compresi quelli che cerchiamo di nascondere e che ci fanno paura. E portiamo tutto con noi, perché tutto ciò che siamo, siamo stati e saremo sia liberato e trasfigurato.

L’inizio del racconto, così folgorante, contiene in sé una fragilità, una contraddizione.

Abramo porta con sé parte del suo passato e del suo presente, ma scopre, subito, che la terra fisica in cui dovrebbe trasferirsi è già abitata. La sposa promessa… è già impegnata! Abramo dovrà confrontarsi e lottare con la diversità, uscire da sé per incontrare Dio significa andare in una terra sconosciuta ma già abitata, in positivo e in negativo. Non è mai un terreno vergine, quello in cui andiamo, è abitato da altro, da altri, richiede una predisposizione al confronto e alla mediazione. Non solo. Dio gli dice, correggendo la promessa, che darà la terra ai suoi discendenti, non più a lui. Che batosta! Come farà con Mosè, il liberatore che non entrerà mai nella terra di Israele, Dio svela ad Abramo che occorre guardare al di là del proprio percorso, del risultato, della propria vita interiore.

Promessa ad Abramo

«Io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare» (Gen 22, 17)

Ma quel partire, quell’osare, quel cercare è già gravido di conseguenze. Per il fatto stesso di andare, Abramo smuove un universo. Smuove l’Universo. Il suo dinamismo inonda il futuro e lo feconda.

Diventa una pioggia di benedizioni. Benedire, cioè dire del bene, vivere il bene, operare il bene, sperimentare il bene. La luce, non l’ombra, finisce col predominare. Ecco la benedizione per sé e per l’umanità intera. Poiché si è fidato, poiché non si è fatto un’immagine idolatrica di sé, poiché accetta di essere in divenire, diviene Patriarca, cioè padre dell’umanità che non si arrende. Abramo parte per una ricerca non solo personale ma collettiva: da subito viene coinvolto un popolo, una discendenza, un futuro. Non parte per sé ma per me, per noi, per tutti.

Ciò che facciamo ha delle conseguenze imprevedibili, da ora e per sempre, che superano la nostra esperienza. Porsi alla luce dell’Eterno significa strappare la nostra vita alla dittatura dei risultati conseguiti, ai veri o presunti fallimenti, alle disillusioni, al giudizio. Guardare la propria vita inserita in un’altra grande Storia fatta di benedizione per noi e per tutti. Guardarsi come parte di un immenso progetto di salvezza. E pazienza se la nostra vita non va come avremmo voluto…

La nostra esperienza non è mai solitaria! Abramo lo sperimenta: la sua risposta, la sua avventura diventa benedizione per un intero popolo, per l’intera umanità.

La chiamata di Abramo ci svela che è sempre Dio a prendere l’iniziativa, è lui che ci viene incontro. Ed è la grande novità proposta dall’approccio biblico, qualcosa fino ad allora inimmaginato. È Dio che ci cerca. Noi cerchiamo colui che ci cerca. Lasciamoci trovare!

Non solo. Dio rispetta i nostri tempi e i nostri cammini. Abramo sente la voce di Dio e l’esigenza di una vita autentica in età adulta: la sua scoperta di Dio non è né facile né immediata, dovrà attraversare molte prove, prendere coscienza e superare i propri limiti, lottare contro i propri sbagli e gli avversari, fidarsi della promessa di una discendenza, staccarsi dai legami esteriori e interiori, dal possesso (una terra già abitata!), dalla realizzazione immediata. Tutto questo non si fa in un attimo, ci vuole molto tempo! Dio è sempre alla porta e bussa. Ci sono momenti nella vita in cui, finalmente, ci decidiamo ad ascoltare.

Ma Dio non può essere trovato se la nostra vita è piena di idoli. Anche la nostra idea di Dio, la nostra vocazione religiosa, il nostro movimento possono diventare degli idoli. Anche i nostri affetti, anche la nostra famiglia o le nostre conquiste. Tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio (1Cor 3,23).

Abramo è un cercatore di Dio. O la nostra vita diventa ricerca, passione, scrutamento, o finisce con l’essere uno sterile susseguirsi di giorni. La grande notizia della Parola è che ognuno di noi ha un destino, una chiamata, ognuno di noi è chiamato, chiamata da Dio, ognuno è capace di Dio. O l’uomo cerca l’altrove, si fa viandante, è in movimento continuo o non è. E la vita diventa una splendida caccia al tesoro (Mt 13,44).

 

Siamo chiamati a rispettare i tempi della nostra crescita umana e spirituale. Dio non ha fretta, sa attendere i nostri tempi, le nostre stagioni. Il rischio di ricercare una conversione definitiva e immediata (come san Paolo!) e non accettare una logica di conversione è sempre presente. Vorremmo cambiamenti immediati, folgoranti, epocali. I cambiamenti avvengono solo per stadi e a volte durano tutta la vita e a volte a Dio non interessano! La logica di Dio mette in crisi il nostro efficientismo!

Siamo uomini quando diventiamo liberi. Quando ci liberiamo dagli idoli. Occorre anzitutto dare un nome agli idoli, identificarli, sapendo che gli idoli cambiano con noi. Da quelli giovanili (l’efficienza, il guadagno, il delirio di onnipotenza) a quelli da adulti (il ruolo, gli status symbol, l’immagine di sé) a quelli del tramonto della vita (l’essere riconosciuti, la depressione del vivere). Una corretta percezione di sé è auspicabile e positiva, e deriva dallo scoprirsi cercatori, alla luce della Parola. La libertà “da” ciò che ci sta intorno diventa libertà “per”, per amare. Come dice Gesù, la consapevolezza dei legami negativi ci spinge ad accoglierli e a trasfigurarli. Più raramente a superarli. La verità ci farà liberi (Gv 8,32)!

(Continua)

Abramo #1

Abramo

Iniziamo con Abramo un percorso su figure bibliche che possono parlare al nostro quotidiano…

 

Le riflessioni sono tratte da: P. Curtaz, Il cercatore, lo scampato, l’astuto, il sognatore, San Paolo, 2016. 

 

 Vattene dalla tua terra….

Signore disse ad Abramo:

«Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò, cosicché faccia di te una grande nazione e ti benedica e faccia grande il tuo nome, e tu possa essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te acquisteranno benedizione tutte le tribù della terra» (Gen 12,1-9).

Tutto inizia qui: da questo racconto scarno e misterioso che parla di un uomo non più giovane che lascia tutto ciò che ha per seguire una voce interiore.

«Il Signore disse ad Abramo»

Dio parla. E, questa volta, lo fa con Abramo.

Il Signore disse. È Dio che prende l’iniziativa, lui che si comunica, lui che bussa discretamente alla porta del cuore di Abramo, e di ciascuno di noi.

«Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò»

 

Orme sulla sabbiaVattene. Va’ via. Fuori, aria, sgombra. Lascia tutto: terra, clan, famiglia. Per cosa? A che scopo? Non si sa, vedremo, poi ti mostrerò una terra, un luogo, una nuova dimensione. Per ora, vattene.

Vattene senza sapere, vattene senza avere una meta definita e chiara. Va’ via.

Immagina come si sia sentito Abramo dopo avere udito questo appello riecheggiare nella propria anima. Davanti a sé ha una vita che sembra segnata, conclusa, colma di problemi: l’assenza di una discendenza, il peso di un nipote rimasto orfano, una moglie depressa, la mancanza di prospettive e di soluzioni… Non ha vie d’uscita. È proprio allora che Dio interviene, ribaltando il tavolo: propone ad Abramo di mollare tutto, di lasciar perdere quello che fino ad allora si è costruito. Di resettare, azzerare, ripartire.

Abramo, attraverso un’abile rappresentazione, visualizza il suo disagio: gli idoli che costruisce, che serve, sono inutili, inanimati, non portano da nessuna parte. Per incontrare Dio e se stessi bisogna, anzitutto, distruggere gli idoli o, almeno, accantonarli, svuotarli di potere. La chiamata interiore si innesta su un grido. Il grido dell’anima che cerca di liberarsi dalle pesanti catene di cui ci siamo (o che ci hanno) caricati. Così accade anche a noi: la ricerca di fede, anche se siamo già credenti – proprio come Abramo! – avviene quando qualcosa in noi si spezza, quando prendiamo coscienza che esiste un altrove dove andare, che la nostra vita non si consuma nell’inseguire sogni quasi sempre irrealizzabili e fragili. Quando il grido esce, come una preghiera confusa, come un’invocazione che non maledice ma anela, Dio interviene, ora che siamo disposti ad ascoltare.

 

Lekh lekhà!

Vattene! Esci! Nel testo originale si legge Lekh lekhà! che traduciamo con va’ via! Ma che, letteralmente, significa, va’ per te stesso o va’, ti conviene! Uscire significa, allora, entrare. Entrare in noi stessi, scoprire la dimensione della nostra interiorità che abbiamo trascurato, accorgerci di avere un’anima. Anima che non è la somma delle nostre emozioni, o dei nostri pensieri ma che è all’origine dei nostri pensieri e delle nostre emozioni e che possiamo scoprire con un lavoro costante di riflessione e di silenzio, di lettura orante della Bibbia e di preghiera. Esiste l’anima, eccome! È un brandello della scintilla divina che abbiamo ricevuto nel momento del nostro concepimento, è il desiderio insopprimibile di assoluto e di pienezza che portiamo incollato nel cuore, è la percezione sana, profonda, irremovibile, di essere gettati nell’esistenza con uno scopo. Questo deve fare Abramo, passare dal “fuori” al “dentro”, abbandonare gli idoli. Gli conviene, è il momento giusto. Lasciare la città, la folla, il giudizio degli altri, i legami, non sempre costruttivi e fecondi, con i famigliari, per andare altrove. L’uscire dalla città per andare nel deserto è il movimento della consapevolezza, il prendere in mano il proprio destino, decidere di vivere da protagonisti la propria vita. Ma per andare dove? Non lo sa ancora. Lo saprà solo camminando, muovendosi. Finché sta fermo, racchiuso nel suo piccolo mondo, nel suo dolore, nelle mille incombenze che cerca di governare, non capirà mai che esiste un altro luogo, un altro sé da scoprire. Solo camminando scopriremo dov’è la meta. Come tutti noi, vorrebbe chiedere: Dove? Andare dove? Chiedere: Dove abiti? (Gv 1,39). Ma saperlo significherebbe, ancora e ancora, voler tenere tutto in mano, condurre, pianificare, essere noi i signori della nostra vita. Fare del nostro schema mentale un ulteriore idolo cui sacrificare energie e tempo. Qui, invece, si tratta di fidarsi.

Il Dio del quale si racconta nella Bibbia, colui in cui credo e che cerco, è il primo a smuoverci dalle nostre presunte certezze, a farci rientrare in noi stessi, a volere per noi un cammino, una crescita, una fioritura.

carovana deserto

Abramo deve lasciare la terra come prima cosa. Relativamente facile, per un nomade. Facile anche per noi, oggi, che ci spostiamo agevolmente, che seguiamo il lavoro dove c’è o che corriamo dietro ai nostri interessi o a un amore.

Poi deve allontanarsi dalla parentela, dalla tribù, dal clan. Cosa decisamente più impegnativa. Sappiamo bene quanto siano importanti le radici famigliari, il luogo in cui siamo nati, in cui siamo cresciuti, la scuola, i compagni, la parrocchia, i rapporti di parentela… Ancora oggi molte nostre decisioni sono influenzate da quello che, consapevolmente o inconsciamente, abbiamo ricevuto dal nostro ambiente parentale, dal quartiere in cui siamo cresciuti, dal paesino in cui abbiamo mosso i primi passi verso la vita. Molti di noi sono stati educati a rispettare scrupolosamente le regole non dette del clan, il giudizio della gente, apparendo così come gli altri si aspettano. E faticano a farle proprie come scelte di vita.

Più difficile ancora è allontanarsi dalla casa del padre, dalla famiglia, dai legami di sangue. Le relazioni affettive, famigliari, sono al centro della nostra vita emotiva. Sono fonte di grandi gioie e di enormi sofferenze e incomprensioni, un banco di prova che giunge a influenzare, a volte molto negativamente, la vita delle persone. In ambiente cattolico, poi, il rischio (spero commesso in buona fede!) di far diventare la famiglia un idolo è molto presente. Siamo chiamati a testimoniare la peculiarità della proposta cristiana sugli affetti in questo mondo ma vale la pena di ricordare che, nel Vangelo, anche il più grande amore, per un coniuge, per un figlio, è e resta realtà penultima. Prima della famiglia c’è il discepolato. Abramo lo sa: deve lasciare la sua famiglia. Suo padre è morto, certo, ma deve lasciare l’idea che ha di lui, il suo fantasma, il suo giudizio. E farà i conti anche con la sua fragilità affettiva, come vedremo abbondantemente, con la famiglia che tenterà di costruire, con sua moglie e con i suoi figli, legittimi e illegittimi. Anche gli affetti possono diventare un idolo, quando li carichiamo di attese che non possono in alcun modo soddisfare.

Abramo parte. La Parola non indugia nel descrivere le sue notti insonni, non concede nulla alla legittima curiosità del lettore su come sia arrivato a quella drastica decisione. Non si sa come, alla fine, sia giunto a quella scelta; forse nemmeno importa. Contano sempre le scelte, le decisioni, più che il percorso tortuoso che abbiamo compiuto per farle. Parte. Ascolta la sua spinta interiore. Lascia tutto.

Il testo riporta qualche toponimo, tappe del suo viaggio che da interiore diventa esteriore. Capiamo che lascia Ur e scende verso il Sud, verso Gerusalemme. Abramo si dirige verso il centro della rivelazione biblica, cammina verso la conoscenza del Dio che si rivelerà a Israele. Cammina verso quel Dio, non verso un dio qualunque. Il cammino interiore non è un invito a seguire una spiritualità generica, a scoprire in età matura la propria anima, ora che è tanto di moda, imparando ad ascoltare se stessi.

Abramo, e noi con lui, è invitato a dirigersi incontro al Dio d’Israele. Quando una persona entra in crisi, quando decide di andare oltre, quando la vita presenta il conto, non si offrono soluzioni globali, suggerimenti generali, mi spiace. Si dice quello che abbiamo scoperto: ascolta la tua sete, cerca Dio, non giocare a fare il mistico. Ma cerca nella direzione giusta, verso Gerusalemme. Cerca il Dio di Gesù. Cammina in quella direzione. Meglio fare un piccolo passo nella direzione giusta, piuttosto che correre a grandi falcate nella direzione sbagliata. Parte, Abramo, e va verso il luogo che gli permetterà di scoprire l’abisso luminoso e oscuro di Dio.

Continua …

Gv 20,19-23

Cenacolo

Cenacolo a Gerusalemme

Mentre erano chiuse le porte del luogo per paura dei Giudei… Accade sempre così quando agisci seguendo le tue paure: la vita si chiude. La paura è la paralisi della vita. I discepoli hanno paura anche di se stessi, di come lo hanno rinnegato. E tuttavia Gesù viene. È una comunità dalle porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e si respira dolore, una comunità che si sta ammalando. E tuttavia Gesù viene. Papa Francesco continua a ripetere che una chiesa chiusa, ripiegata su se stessa, che non si apre, è una chiesa malata. Eppure Gesù viene. Viene in mezzo ai suoi, prende contatto con le loro paure, con i loro limiti, senza temerli. Sa gestire la nostra imperfezione.

Mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». L’abbandonato ritorna e sceglie proprio coloro che lo avevano abbandonato e li manda. Lui avvia processi di vita, non accuse; gestisce la fragilità e la fatica dei suoi con un metodo umanissimo: quello del primo passo. Il cardinal Martini diceva: “in qualsiasi situazione, anche in quella più perduta, indicate un passo, un primo passo è possibile sempre, per tutti, un passo nella direzione giusta”. Noi non saremo giudicati se avremo raggiunto l’ideale, ma se avremo camminato nella buona direzione, senza arrenderci, con cadute e infinite riprese, con gli occhi fissi ad una stella polare. Gestire l’imperfezione significa questo: avviare processi di vita e cercare di ottenere il miglior risultato possibile ogni giorno. Molti ti sbandierano in faccia la loro idea di perfezione. Sono i più, convinti inoltre di esprimere la vera sapienza, ma con loro le cose non cambiano mai, i perfetti il più delle volte sono immobili.

Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. Soffiò… Lo Spirito è il respiro di Dio. In quella stanza chiusa, in quella situazione che era senza respiro, asfittica, ora respira ora il respiro di Cristo, quel principio vitale e luminoso, quella intensità che lo faceva diverso, che faceva unico il suo modo di amare e spalancava orizzonti.

A coloro cui perdonerete i peccati saranno perdonati, a coloro cui non perdonerete non saranno perdonati. Il perdono dei peccati è un impegno affidato a tutti i credenti che hanno ricevuto lo Spirito, donne e uomini, piccoli e grandi. Il perdono non è un sentimento, ma una decisione: «piantate attorno a voi oasi di riconciliazione, aprite porte, riaccendete calore, riannodate fiducia nelle persone, inventate sistemi di pace». E quando le oasi si saranno moltiplicate conquisteranno il deserto.

Lo Spirito, il misterioso cuore del mondo, il vento sugli abissi dell’origine, il fuoco del roveto, l’amore in ogni amore, respiro santo del Padre e del Figlio, lo Spirito che è Signore e dà la vita, come proclamiamo nel Credo, è dato  a noi, abita in noi. E cosa fa in noi? Ama insegnare, accompagnare oltre, verso paesaggi inesplorati, consolare, sostenere, infondere lo spirito filiale che ci permette di rivolgerci al Padre chiamandolo: Abbà! Lo Spirito soffia adesso; soffia nelle vite, nelle attese, nei dolori e nella bellezza delle persone. Questo Spirito raggiunge tutti. Convoca noi tutti, cercatori di Dio, che ci sentiamo toccati al cuore da Cristo e non finiamo di inseguirne le tracce. Ognuno ha tutto lo Spirito che gli serve per collaborare ad un’opera fondamentale dell’evento di Pentecoste: incarnare ancora il Verbo, fare di ciascuno il grembo, la casa, la tenda, una madre del Verbo di Dio. In quel tempo, lo Spirito è sceso su Maria di Nazareth, in questo tempo scende in me e in te, perché incarniamo il Vangelo, gli diamo passione e spessore, peso e importanza; lo rendiamo presente e vivo in queste strade, in queste piazze, salviamo un piccolo pezzo di Dio in noi e non lo lasciamo andare via dal nostro territorio.

Notti e silenzi… prima di una nuova alba – Gv 21,1-14

Sandali lago di Tiberiade

Galilea, Lago di Tiberiade

Era già accaduto qualcosa di simile nella vita di Pietro. Tre anni prima sul lago Tiberiade. Se lo ricordava bene Pietro: una pesca da schifo, la notte insonne, il malumore, poi d’improvviso Gesù aveva chiesto in prestito la barca. Pietro stava per dargli una rispostaccia, di continuare a fare il falegname invece di insegnare ai pescatori di pescare. Ed invece… una pesca miracolosa e Pietro che si butta in ginocchio. Tre anni erano passati ed ora era finito tutto: “Io vado a pescare”.  Scoraggiati e incostanti, Pietro ci guida. Come Pietro davanti alla delusione ci riappropriamo della vita stanca, pensiamo che ormai abbiamo fallito! Ma la depressione non porta vita! E di nuovo nulla nelle reti, pesci assenti, nessuna consolazione. La notte sta per finire, ma per quanto sia lunga e faticosa, la notte finisce sempre con una nuova alba! Il buio è arginato, non può superare il limite che Dio gli assegna. Pietro torna a riva con i suoi amici e nessuno si accorge del pescatore mattiniero che gli si avvicina. “Pescato niente?” “No!” nessuno ha voglia di parlare con questo peso nel cuore! Il mattiniero non si arrende: “Perché non riprendete il largo?” Giovanni guarda, Pietro pure. Alzano lo sguardo… quella frase l’hanno già sentita, molti anni prima. Prendono il largo, gettano le reti, accade! Pietro capisce, il cuore gli pulsa nelle tempie, gli scoppia. No non è un caso. È Lui! È Giovanni a urlare, è lui che lo riconosce. Pietro stavolta si fida ciecamente, si butta in acqua, come aveva fatto in quella memorabile notte di tempesta sul lago. A riva si svolge una scena tenerissima. Gesù chiede qualche pesce appena pescato. Gesù arrostisce, tutti tacciono ora. È proprio Lui, lo riconoscono nel gesto del servizio, nel sacramento dell’accoglienza. Ancora una volta il Maestro li ha raggiunti alla fine della notte.

“Mi ami tu?” Non: “ Mi sei amico?” Pietro tace, certo che lo ama, vorrebbe urlare, ma ormai è tardi, non è più possibile. “Ti voglio bene, Signore”.

“Mi ami?” Ancora? Quante volte dovrà sentirsi mancante? No, non può insistere, lui non può promettere altro. “Ti voglio bene, Signore”.

Gesù sorride, lo fissa lungamente: “Pietro, mi vuoi bene tu?” Pietro si ferma, alza lo sguardo. Gesù sa che non è in grado di amare, ed è lui ad abbassare il tiro. A Gesù va bene così…

Pietro sospira, lo guarda: “Cosa vuoi che ti dica, Signore?”

Bene! Questo voleva il Signore, la consapevolezza del suo limite. Ora Pietro è pronto, ora sa che non c’è tenebra che possa impedire di essere amati. Non la fragilità, non la paura, non il carattere, non il peccato, non la malattia, non la debolezza di fragili creature. Pietro ora sa, ora può!

Gesù lo guarda. Sorride e pronuncia un invito: “Seguimi!”

Seguilo, Pietro! Ora sei libero per amare, libero dalle tue fragilità, libero dalle tue paure, libero da ciò che pensavi fosse indispensabile per essere discepolo. Libero, Pietro, finalmente libero di amare.

Testo evangelico sulla Pasqua – Mt 27,45-28,8

Testo evangelico sulla Pasqua

Nella notte in cui le guardie vegliavano presso il sepolcro sigillato di Gesù, in cui il sinedrio vegliava nella paura che il sepolcro si aprisse, passa il Signore rispondendo al grido di Gesù: “Perché mi hai abbandonato?”. Passa il Signore ed emerge il grande grido della resurrezione di Gesù che anche noi la notte di Pasqua udiamo pronunciato dal sacerdote per tre volte in diverse direzioni, perché tutto il mondo possa udire questo grido: “Cristo, il Crocifisso è risorto!”. Questo grido di gioia, che corrisponde al grido di dolore di Gesù sulla croce, è la certezza che proclama che ogni abisso di male in questo mondo ha già un abisso di bene che lo ha inghiottito; ogni morte ha già il suo contrappeso di vita che scavalca ogni gravame di malattia; ogni crisi ha già il suo superamento; ogni tristezza ha già la sua gioia sconvolgente; ogni depressione ha già la sua resurrezione gloriosa. Nell’evento della Pasqua si rivela pienamente il volto del Padre: Dio non fa alcun miracolo per salvare Gesù dalla morte, tuttavia questo Dio è con Gesù, si mette dalla sua parte, dà ragione a Gesù. Non attraverso una potenza straordinaria, ma nell’esserci… con ciascuno di noi nelle prove, nel farci compagnia nella nostra solitudine, nell’esserci vicino nella nostra agonia con la  speranza di una vita per sempre dove Dio si mostra il Dio con noi.

Ecco l’annuncio della Pasqua: “Ho visto il Signore” ho fatto esperienza di lui! Ora so che vivo in lui, ora so che l’eternità è già qui, ora so che niente mi potrà far disperare del futuro perché il futuro è entrata nella mia vita. Ora io so che la morte non mi farà più male, che nessuna preoccupazione, paura o schiavitù di questo mondo e di questa quotidianità mi può opprimere perché c’è dentro di me la sorgente dell’eternità e della libertà: Gesù Cristo, il Risorto!

Auguri a tutti,

sr Maria Paola e sorelle