Attendere per risvegliare l’attenzione

“State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso. È come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare. Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all’improvviso, trovandovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!” (Mc 13, 33-37)

Entriamo nel tempo dell’Avvento (adventus, venuta), ascoltando le ultime parole del discorso escatologico di Gesù nel vangelo secondo Marco. Nell’anno B, che ci troviamo a vivere, le prime due domeniche di questo tempo liturgico sono orientate alla riflessione sulla seconda venuta del Signore, quella finale; mentre le seconde due sono invece dedicate alla preparazione della venuta storica di Gesù di Nazareth nel suo Natale

Un discorso, quello proposto dalla liturgia, che Gesù aveva iniziato rivolgendosi ai quattro discepoli chiamati per primi e più coinvolti nella sua vita – Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea (cf. Mc 13,3-4) –, e che ora egli termina indirizzandosi “a tutti”, con un’esortazione impellente: “Vegliate!”. Questo imperativo appare nel nostro brano come un ritornello incessante.

Ma cosa significa vegliare?

Vuol dire “stare svegli”, stare con gli occhi aperti, “fare attenzione”, come traduce la versione italiana. È la postura della sentinella che veglia, lottando contro il sonno e soprattutto contro l’intontimento spirituale; che tiene gli occhi ben aperti e scruta l’orizzonte per cogliere chi e che cosa sta per giungere. Vegliare è un esercizio faticoso, perché in esso occorre impegnare la mente e il corpo, ma è un esercizio generato e sostenuto da una speranza salda: c’è qualcuno che giunge, qualcuno che è alla porta; qualcuno che, amato, invocato, ardentemente desiderato, sta per venire.

“L’attenzione è la prima forma d’amore, è la manifestazione più pura della generosità” diceva Simone Weill, e non è un caso che sanno vegliare soprattutto le sentinelle e gli amanti…

Il Signore verrà «Alla sera, a mezzanotte, al canto del gallo, al mattino» (v. 35): queste quattro indicazioni cronologiche indicano la suddivisione delle ore della notte presso i Romani in quattro veglie (corrispondenti ai quattro turni di guardia — o «vigiliae» — delle sentinelle dalle 18 alle 6 del mattino). Colpisce che secondo questa parabola il momento del ritorno del padrone sarà nella notte. Tempo in cui occorre tenere gli occhi ben aperti, in cui è più difficile non lasciarsi sopraffare dal sonno, in cui occorre lottare contro la pesantezza del corpo e dell’animo. In cui più che mai si deve attuare la vocazione dei cristiani ad essere luce.

La notte è simbolo di tempi bui, di tenebre interiori e storiche, personali e comunitarie, civili ed ecclesiali. La venuta del Signore non le abolisce, ma è proprio in esse che egli viene già oggi, nel quotidiano della vita. Si tratta di abitare la notte acuendo lo sguardo spirituale, lottando contro la pigrizia. La notte è questo tempo, è il nostro oggi, il tempo della pandemia. L’attesa della venuta del Signore diviene così sforzo di discernimento dei segni della sua presenza lì dove siamo.

La vigilanza richiesta vuole condurre l’uomo a essere all’altezza della propria umanità e della propria fede. La vigilanza è fedeltà alla terra nella piena coscienza di essere alla presenza di Dio. La vigilanza nasce da un’unificazione della persona di fronte al Signore che la conduce a essere lucida, presente a se stessa, alla realtà, agli altri.

La vigilanza è una scelta, una responsabilità di tutti i cristiani, che non può essere delegata all’uno o all’altro: «Quello che dico a voi lo dico a tutti: vigilate!» (v. 37).

La vigilanza è la matrice di ogni virtù cristiana, un padre del deserto ha affermato: «Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante» (abba Poemen).

Non ci resta allora che incamminarci in quest’attesa chiedendoci: Cos’è oggetto della mia attenzione? Sono sveglio o il torpore dell’indifferenza e dello sconforto mi hanno ingabbiato? Come voglio essere trovato in questo Avvento dal Signore che viene? Con parole di luce o con lamenti di sonno? Con generosi gesti di carità nelle mani o con il corpo ingordo sdraiato sul divano?

Ci sia compagna nell’andare la poesia Veglia di Ungaretti, scritta il 23 dicembre 1915 al fronte, in piena Prima guerra mondiale; il Signore ci conceda di scoprirci, come il poeta, amanti presenti e generosi, capaci di scrivere con la vita in ogni situazione “parole piene d’amore”

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

 

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

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