E se fosse una grazia?

E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente. E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare il suo fratello spirituale? E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi.

(Dalla Regola bollata, FF 91-92)

 

Eccoci al terzo appuntamento di questa rubrica sui Centenari francescani! Bentornati a tutti e, per ricordare di cosa stiamo parlando, dall’anno scorso al 2026 tutta la famiglia francescana festeggia, e festeggerà, gli ottocento anni da alcuni momenti molto significativi della vita di san Francesco e dell’Ordine.

Continuando la nostra ricerca nella bellezza di queste celebrazioni, approfondiamo un altro aspetto cardine del carisma francescano, riportato più volte, in varie forme, nella Regola bollata (documento che descrive il modo di vita lasciatoci da san Francesco, e primo centenario celebrato e festeggiato a novembre dell’anno scorso): la povertà e il servizio ai fratelli più soli e in difficoltà.

Questo tema accompagna il terzo pilastro della Gioventù francescana, gruppo di giovani che cerca si seguire il Signore proprio sull’esempio del poverello di Assisi, lasciandosi guidare anche dalla Regola nella propria ricerca di senso, di vita, di felicità… di Dio.

Senza svelare troppo, lasciamo la parola ad alcuni testimoni che hanno toccato con mano la povertà, mettendosi a servizio, e che nelle persone bisognose hanno riconosciuto dei fratelli ed incontrato, in e grazie ad essi, Cristo ed il Suo amore.

 

Ciao a tutti! Sono Gabriele, ho 21 anni e vivo a Terni.

La testimonianza che vi porterò oggi è basata su un tema ripreso da uno dei quattro pilastri della Gioventù Francescana (Gi.Fra), cammino di cui ora faccio parte, e questo tema è: “I poveri e gli ultimi come fratelli”.

Circa 3 anni fa, in un colloquio col mio padre spirituale, è venuta fuori una proposta che non mi sarei mai aspettato, ovvero trascorrere del tempo in una casa-famiglia presso San Fatucchio a Castiglione del Lago gestita, da Giovanni e Chiara.

Ero molto entusiasta di partire, così ci pensai un po’, ci pregai su e alla fine andai.

La mia esperienza è durata relativamente poco, una settimana circa, però è stato il tempo che Dio ha voluto per me.  Durante questa settimana ho conosciuto molte persone che mi hanno raccontato le loro storie (storie di tossicodipendenza, di depressione, di autolesionismo), che erano simili tra loro ma diverse, ed ho messo mano nella loro umanità e soprattutto nella loro fame e nel loro desiderio di riscatto. Un ragazzo in particolare mi ha colpito: Edison. Un ragazzo idrocefalo, che passava tutte le sue giornate a letto, e che doveva essere accudito e sorvegliato per tutto il giorno. Ecco, proprio lui è il cuore pulsante della realtà, un ragazzo che nel suo far, apparentemente, niente, fa tanto, molto, testimoniando la docilità nella sua situazione. Ho visto come il Signore agiva all’interno delle vite dei ragazzi, quelle vite che a volte hanno vissuto come spettatori. Ma poi, quando il Signore si è presentato dinnanzi a loro, senza far rumore, piano piano, li ha fatti uscire da quel buio da cui non riuscivano da soli. Qui ho trovato gioia, mi sono sentito accolto, amato, perché anche se per poco tempo, ho condiviso un piccolo pezzettino di vita ed ho trascorso intere giornate con loro, e con alcuni di loro siamo riusciti anche ad andare a fondo, a mettere da parte le armature e i pregiudizi e ad aprirci all’altro, all’ascolto, nella fiducia di un Dio che salva e che accoglie, ma soprattutto che valorizza ogni storia, anche quella più disperata. Questa esperienza ha fatto mettere mano anche alla mia umanità, perché nonostante questa bellezza e questa gioia, ho riscontrato delle difficoltà, dei limiti di me che non conoscevo e che in quel momento mi davano fastidio, ma che poi il Signore piano piano ha illuminato e maturato per poter divenire un uomo e un uomo di Dio.

Gabriele

 

 

Da quando ho iniziato a dedicarmi al servizio come animatrice del doposcuola per i più piccoli, ho potuto sperimentare in prima persona come la Regola di san Francesco continui a parlare ai giovani, specialmente attraverso il pilastro dei poveri e degli ultimi come fratelli.

Il nostro doposcuola ha radici umili, nato nel settembre del 2015 da un’iniziativa di quattro ragazzi che, ispirati dal loro professore di religione, facevano servizio alla mensa dei frati di Sant’Antonio. La scintilla che ha dato vita a questa idea è scaturita dall’osservazione dei tanti ragazzini e bambini che accompagnavano le loro famiglie nella fila della mensa per ritirare il pacco spesa. È stato un momento di profonda consapevolezza delle necessità della comunità e della chiamata a rispondere a quelle necessità.

Personalmente, sono entrata in contatto con questo servizio nel dicembre del 2015, grazie alla Gi.fra. È stato un invito che ho accolto con entusiasmo, guidata dalla volontà di mettermi al servizio degli altri.

Negli anni in cui ho svolto questo servizio, le mie emozioni sono state sempre contrastanti. C’è stato un mix di paura ed emozione che accompagna ancora oggi ogni incontro con i ragazzi del doposcuola. La paura, forse, di non essere all’altezza, di non riuscire a rispondere pienamente alle loro esigenze. Ma c’è anche l’emozione, profonda e sincera, di sentirsi utili per loro, di essere un punto di riferimento e di sostegno nelle loro vite.

In questo contesto, la Regola di san Francesco continua a illuminare il nostro cammino. L’esempio del Santo di Assisi, che abbracciava la povertà e si faceva fratello di ogni creatura, ci ispira a vivere la nostra missione con umiltà e amore. Ogni volta che ci troviamo di fronte ai nostri ragazzi, riconosciamo in loro la presenza di Cristo, e questo ci spinge a dare il meglio di noi stessi, con generosità e dedizione.

Il servizio al doposcuola per i più piccoli è molto più di un compito da svolgere. È un’esperienza di incontro e condivisione, che ci arricchisce e ci trasforma. Attraverso la nostra dedizione quotidiana, cerchiamo di trasmettere ai ragazzi i valori dell’accoglienza, della solidarietà e della fraternità, proprio come ci ha insegnato San Francesco. E, in questo modo, speriamo di contribuire a costruire un mondo più giusto e più umano, dove ogni persona possa sentirsi amata e valorizzata, indipendentemente dalle proprie difficoltà e fragilità.

Ludovica

 

 

Poveri e ultimi come fratelli.

Io ho avuto la benedizione di poter vivere questo pilastro nella carne fin dal pancione materno… condiviso da ben due inquiline!

Infatti, sono gemella della mia bellissima Cecilia la cui povertà porta il nome della sua disabilità: Tetraplegia spastica e disfagia dovuta a un’anossia cerebrale peri-natale. Ciò l’ha resa da subito dipendente dalle cure dell’altro. Ceci vive di relazioni e di RELAZIONE. 

E la nostra storia si basa proprio su questo: costruire giorno dopo giorno il nostro stare insieme e il nostro ‘Si, eccomi’ detto anche, e oserei dire soprattutto, di fronte alla ferita del nostro vissuto e alla fatica della nostra quotidianità. 

Ferite e fatiche che – e quanto sto per dire è stato uno dei primi grandi miracoli pensati per la mia vita- sono state abitate dalla grazia e dalla delicatezza di Dio e che ancora oggi Lo riflettono. Una relazione dunque BENE-DETTA non perché sradicata da ogni difficoltà, ma perché vegliata e accompagnata in ogni sua fase e passaggio, dall’ infanzia ad adesso. 

Credo fermamente che il Signore ci abbia volute in due e scelte così come siamo perché tramite i nostri incastri fatti di mancanze e doni potessimo essere l’una per l’altra via per la salvezza e strumento tramite cui lasciarci incontrare da Egli stesso: 

mi ha affidato mia sorella affinché io potessi imparare ad amare; sono stata affidata alla mia gemella affinché lei mi mostrasse come lasciarmi amare. Ci ha credute capaci di questo, e poi ci ha rese tali da poterlo realizzare.

E così le povertà dell’una sono diventate germoglio e frutto per l’altra portandomi a comprendere come le infermità fisiche di Ceci mi siano state donate per guardare e curare le mie di infermità, ovvero per rendere il mio cuore più ampio e più docile, per lasciarmi accarezzare in quelle zone d’ ombra che non sempre riesco a raggiungere e illuminare.  

Penso quindi che alla fin fine il senso di ‘poveri e ultimi come fratelli’ stia proprio in queste cose:

nel riconoscerci e nello svelarci, tutti, sia poveri che ultimi e vederci pertanto con misericordia trovando così il coraggio di chiedere la grazia a Dio di saperci donare all’ altro sempre più completamente;

È scegliere, come la splendida Maria, di essere sempre più capienti per custodire le disabilità e le preziosità dell’altro;

È dire, come fece il nostro umile san Francesco, con tutta la predisposizione del corpo, della mente e dello spirito che abbiamo: ‘questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore’;

È offrire quello che possiamo e quello che siamo, confidando nel fatto che dove non arriviamo noi, arriva il nostro dolcissimo Sposo.

Benedetta

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